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domenica 29 gennaio 2012

Nordagust - In the Mist of Morning

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Änglagard ed Anekdoten
Circolato come demo nel 2007, rimasterizzato e remixato nel 2010, il disco dei Nordagust contiene brani che iniziarono a prendere forma già a partire dal 1996. Pare che il nome Nordagust abbia origini mitologiche, e sia riferito al vento del nord. Ed è proprio il vento l'elemento che impatta su di me e mi trascina via nei ripetuti ascolti di quest'album. Un vento che arriva ovunque, tutto incontra e parte del tutto porta via con sé. Un vento carico degli odori della natura, talvolta secco, altre volte ebbro di umidità, testimone delle cose del mondo e narratore di poesia antica. Non può che essere di natura emozionale l'approccio con questo disco, che fin dall'opening (e title) track, accarezza e scuote la memoria di sensazioni che non hanno più rispondenza nella quotidianità binaria che ci soffoca. E così si trova la giusta posizione, si chiudono gli occhi e si ascolta il vento del nord. Inizialmente la nostra natura ci induce alla diffidenza ed, immobili, possiamo solo accorgerci del vento su di noi, e provare a respirarlo. Scivolano così via echi di Änglagard ed Anekdoten, ma è solo una folata, impossibile da afferrare; ed è inutile voltarsi indietro, perché quel vento è già passato e nuove raffiche con un penetrante odore di mellotron ci suggeriscono Barclay James Harvest ed alcuni dei momenti più cupi di King Kimson; ed ancora un'interpretazione tipicamente watersiana e passaggi progressive tipicamente made in Italy. Poi pian piano si prende confidenza con il vento, e si prova a lasciarsi trasportare da esso. Ed ecco che danzando, scompaiono le immagini evocate precedentemente ed una brezza animista ci conduce attraverso squarci norvegesi, la bruma, i sentieri, i ruscelli, le foreste. E l'ultima, fondamentale intuizione: è natura ma è allo stesso tempo la descrizione di un paesaggio dello spirito. Non ci può essere una conclusione ad effetto in questa recensione; il vento, eterno, continuerà a soffiare, e “In the Mist of Morning” continuerà a rivelare nuovi affascinanti panorami. (Dalse)

sabato 28 gennaio 2012

The Undergrave Experience - Macabre: il Richiamo delle Ombre

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Sono felice di poter appurare che le band italiane, non trovando fortuna nella nostra penisola ormai alla deriva, stiano scorgendo un porto sicuro fuori dai confini nazionali e che la consueta label russa, Solitude Productions, sia cosi lungimirante nelle sue scelte, da aver potenziato il proprio rooster, con tanti gruppi provenienti dal nostro paese, non ultimi, questi The Undergrave Experience. Questa nuova realtà lombarda è tuttavia una one man band, capitanata dal factotum Marcel, qui supportato da A. Mephisto alla batteria (Hanged in the Crypt) e da Moerke al basso (Consummatum Est) che propone un funeral doom, dalle forti tinte orrorifiche. Questo per dire che nei due brani a disposizione (per un totale di 43 minuti!), i nostri non solo si cimentano, ripetendo pedissequamente la lezione impartita dai grandi act nord europei (i soliti Skepticism e Thergothon), ma integrano il tutto con sonorità riscontrabili nelle colonne sonore della cinematografia horror nostrana (e penso ai Goblin e ai film di Dario Argento), flebili narrazioni, a dir poco inquietanti, in italiano (scelta fatta anche nell’ultimo lavoro degli Aborym) e poi in latino, con risultati a dir poco esaltanti. Non posso dirmi un grande amante del genere, sebbene consideri il funeral una corrente che abbia innumerevoli cose da trasmettere a livello emotivo, ma devo ammettere di essere rimasto totalmente affascinato e ammaliato dalla proposta del combo di Milano, che fin dalla iniziale “Mater Mortalis Tenebrarum”, si apre con quel piglio del tutto funereo, lanciandosi poi nella seconda metà del brano, in atmosfere a dir poco spettrali, ma totalmente malinconiche, arrivando a strozzarmi un nodo alla gola, quando ho come la parvenza che quelle note siano oltre modo simili a quelle della soundtrack de “La Finestra di Fronte”, film di Ozpetek. Solo queste drammatiche e profonde suggestioni infuse nel mio io, bastano a tenere il voto molto alto. Immerso ancora nella pesantezza della rarefazione dei suoni (sia ben chiaro non sto parlando di pesantezza di chitarre ma di plumbee atmosfere invernali) e dal cavernoso growling di Marcel, mi appresto ad affrontare i 20 minuti di “Graveyard Zombie Horizon”. Ancora soffici tocchi di pianoforte, che ci accompagneranno per l’intera durata del pezzo, ancora una ritmica ultraslow, ancora musica che espande le nostre menti in un universo parallelo fatto di luci tenui e ambientazioni da incubo, tra l’altro ancora più rallentate rispetto alla opening track. L’ossigeno diminuisce man mano che si avanza nell’ascolto di “Macabre: il Richiamo delle Ombre”, la vista inizia ad appannarsi, il sudore cola dalla fronte mentre un forte senso di ansia e vertigine si fa breccia nella testa e preme a livello del petto. Gira, gira la testa, le litanie ossessive, quasi ambient, mi fanno perdere la ragione, fino a perdere del tutto i sensi. Incredibili! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 85
 

Boltdown - Omnicide

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Kreator, Machine Head, Chimaira
Da dove devo iniziare per maltrattare questo cd? Intanto inizierei col gridare allo scandalo per la scelta del logo della band, veramente troppo simile a quella dei loro connazionali Bolt Thrower. Seguirei poi con la musica, davvero scontata senza il benché minimo briciolo di personalità, che fa della band di Newcastle l'ennesimo gruppo che va ad incrementare l'incredibile marasma di thrash-death metal band che affollano inutilmente il panorama metal mondiale. Se solo fosse uscito una quindicina di anni fa, “Omnicide” avrebbe forse avuto la speranza di ottenere un discreto responso da parte del sottoscritto, ma ora la vita si fa dura per il quartetto albionico: una scontatissima sezione ritmica che miscela lo stile americano (di Pantera e Machine Head per capirci) a quello più grezzo e diretto dei Kreator, accompagnata da vocals che si alternano tra l'aggressivo e il pulito (a la Killswitch Engage), ostentano tutta la mediocrità di un lavoro che ha la pretesa di suonare come i grandi del passato, Metallica, Megadeth e Iron Maiden in testa. Mah, l'unico consiglio che potrei dare a questi quattro ragazzoni, è di non incaponirsi nell'intento di imitare l'inimitabile... (Francesco Scarci)

(Dark Balance)
Voto: 50
 

Gor - The Medieval Project: Croisades

#PER CHI AMA: Medieval, Ethno Music, Ataraxia
Per coloro che ancora non hanno avuto modo di conoscere il progetto musicale GOR, è d'obbligo una breve introduzione biografica dell'artista Francesco Banchini, talentuoso musicista partenopeo diplomatosi al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli e autore fino ad oggi di ben cinque album, tutti pubblicati per Prikosnovénie. Nella giovane ma prolifica carriera di Francesco va sicuramente menzionata la collaborazione di lunga data con gli emiliani Ataraxia, ma sono da citare anche le prestigiose collaborazioni con il gruppo giapponese Jack or Jive, con i francesi LYS e con la cantante australiana Louisa John-Krol. Fin dai suoi primi passi nel mondo discografico, l'impostazione classica che Francesco ha ricevuto studiando al conservatorio si è aperta dunque alle contaminazioni più svariate, permettendogli di esprimere completamente la sua passione per la musica medievale, per quella etnica (precisamente quella tradizionale del sud Italia, dell'est europeo e del Medio Oriente) e infine per la musica estatica. Lavori quali “Bellum Gnosticorum”, “Ialdabaoth”, “Phlegraei” e “Qumran” sono la prova inconfutabile di quest'approccio libero dell'artista, teso sempre alla ricerca di nuovi suoni e nuove forme di espressione musicale. Con “Croisades” Francesco Banchini giunge al suo quinto album e in esso affronta per la prima volta il tema della speranza, attraverso il racconto di antiche vicende in cui la paura di amare, di combattere e di confrontarsi con la società si accompagna all'attesa di un cambiamento che possa portare giovamento e serenità alla propria esistenza. L'invito di GOR è quello di donarsi interamente con il proprio cuore e di lottare con tenacia se si crede in una giusta causa, ma sempre nel rispetto morale ed etico verso gli altri. Un messaggio che giunge alle nostre orecchie attraverso gradevoli canzoni d'ispirazione medievale; undici brani scritti e suonati da Francesco, che in quest'occasione è accompagnato da alcuni strumentisti quali Riccardo Marconi (chitarra classica e voce in “Flamma Amoris”), Nino Bruno (voce), Cristiano Della Monica (percussioni), Giuseppe De Luca e Giuseppe Galasso (entrambi nei cori di “Fraternitas”). Ascoltare “Croisades” significa trovare conforto nel canto sinuoso e delicato di “Mais no Seria”, farsi cullare dal dolce suono del flauto di “Mon Cor Aders”, concedersi ai tratteggi malinconici di “Fraternitas” e infine, nel silenzio, sentir riecheggiare nella mente le antiche e sagge parole di “Alla Societate”: "E voi più non conoscete lo profumo de li fiori, le canzoni de l'uccelli, la letizia dei ruscelli, la lucerna delle stelle, l'occhi vivi dei bambin che vorrebbero sanare le storture dello mondo - E così continuate senza sosta a duellare, trascinando vostri figli vostre orme a ricalcare, per l'orgoglio nel vedere vostro stemma a perpetuare, v'encensate ve gloriate, poi ven l'ora de morire...". (Roberto Alba)

(Prikosnovénie)
Voto: 85
 

Omitir - Cotard

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum, Deathspell Omega
Altra one man band qui sulle pagine del Pozzo dei Dannati, a cura questa volta di Joel Fausto, mastermind dei portoghesi Omitir, oscuro ensemble dedito a sonorità black depressive. La band, conosciuta inizialmente come Bahamut, ha rilasciato dal 2007 ad oggi, ben due full lenght, tre Ep ed uno split, questo a dimostrare l’estrema prolificità del suo carismatico leader. Ad aprire “Cotard” ci pensano le sonorità tenebrose, quasi noise, di “Foco Abrupto”, che ha il grande pregio di incanalarci sin da subito in un vortice di terrore infinito, prima che le chitarre zanzarose inizino a ringhiare in pieno stile “burzumiano” e le vocals ad emettere grida lancinanti, presto accompagnate da un cantato epico con un approccio vicino a quello degli Isengard. Il finale della song ci lascia interdetti, prima grazie ad un intermezzo dominato da un sax impazzito e poi con uno sfolgorante finale di black epico. “Dor Submersa” comincia con un sample estratto dal film “Eraserhead” di David Lynch, per poi lasciar posto ad un black che, pescando un po’ dagli Immortal, un po’ da Burzum o dai primi Bathory, un po’ dai Mayhem del leggendario “De Mysteriis Dom Sathanas” per ciò che concerne le vocals, contribuisce a creare una malsana atmosfera infernale, prima che ancora una volta avvenga l’inatteso, l’imprevedibile, ossia la comparsa di uno psicotico e destabilizzante sax, che si rivelerà il vero punto di forza della band portoghese. Che l’act lusitano non sia del tutto convenzionale nella sua proposta, lo si deduce anche dall’agonizzante “Poço”, strumentale esempio di ambient apocalittico, che nonostante la sua tranquillità, riesce tuttavia ha alimentare una certa ansia nel sottoscritto, complice sempre quel maledetto suono spettrale del sassofono. Chitarre acustiche ci cullano in “O Dramaturgo”, ma si sa, la quiete è solo un preludio alla tempesta, che puntualmente si scatena nella sua veste più nera, nel corso del brano, prima di trovare un attimo di pausa nel suo break centrale e nella sua epica conclusione. Non riesco a definire il mio reale gradimento per questo album; quel che è certo è che lo trovo assai intrigante, magari non impazzisco per le sue sfuriate black old school (roba già sentita), ma devo ammettere di trovare geniali gli inserti di sax o di quelle ambientazioni al limite del post (black?), sprazzi di una creatività latente che trova la sua massima espressione in queste trovate decisamente spiazzanti, come quel pianoforte sghembo che segue la sporca ritmica di “Perda”, con dei suoni che mi lasciano con la bocca socchiusa, lo sguardo accigliato, come se stessi pensando o pregustando a quello che verrà dopo. Se dovessi fare un paragone del sound di Mr. Marcel, la sola band che mi viene in mente è rappresentata dai malati Deathspell Omega, anche se l’act transalpino è ancora di tutt’altro pianeta. Tuttavia, non posso che apprezzare la voglia di rischiare degli Omitir, un desiderio di mettersi in gioco che mi spinge a premiarli, anche alla luce della magnifica conclusione “Belle Indifference”, la migliore song del lotto. Continuate cosi per favore, magari relegando in secondo piano la furia fine a se stessa del black a beneficio di una ancora maggiore sperimentazione. (Francesco Scarci)

(Amor Fati Productions)
Voto: 75

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Mystical Fullmoon - Scoring a Liminal Phase

#PER CHI AMA: Black Symph Avantgarde, Thee Maldoror Kollective, Arcturus
Che peccato trovarmi a recensire questo lavoro con un discreto ritardo dalla sua pubblicazione, il rischio di ripetere cose già scritte in decine e decine di siti web, è dietro l’angolo. È tuttavia un piacere poter constatare che un’altra band italiana, proveniente dal sottosuolo, dopo una gavetta di oltre 15 anni, sia riuscita a giungere al tanto sospirato traguardo, o meglio, al punto di partenza del debut album. I milanesi Mystical Fullmoon, hanno deciso di puntare sul supporto della Blackmetal.com, per poter esportare, oltre i confini nazionali, un lavoro cosi ambizioso di black d’avanguardia. “Scoring a Liminal Phase” sancisce il ritorno sulla scena dell'ensemble lombardo, dopo un preoccupante silenzio durato quasi una decade. Passando alla musica, posso affermare che si presenti da subito maestosa, con l’opening track affidata ad “As I Walk Along”, che scomoda i grandi maestri del black sinfonico, come Emperor e Limbonic Art, differenziandosi però dai gods norvegesi per l’utilizzo di atmosfere più apocalittiche (che mi hanno ricordato gli ultimi Aborym), ritmiche più rallentate e un uso completamente differente delle vocals ad opera di Gnosis, che nonostante lo screaming, presenta una timbrica decisamente differente dalle altre realtà black, molto stile “carta vetrata”, arrivando talvolta ad adottare addirittura un cantato evocativo. Come evocative, direi quasi occulte, sono le ambientazioni che si possono ascoltare nel corso del cd, come in “Per Speculum in Aenigmate”, dove ad alternarsi troviamo furibonde cavalcate black/thrash contrapposte a notturne aperture acustiche, fino a giungere alla soglia di divagazioni non propriamente di stampo metal, ancor prima di abbandonarsi ad un travolgente finale heavy progressive. Impressionanti, si ecco la prima parola che mi è venuta in mente: la complessità della musica dei nostri, affiancata alla genialità di alcune partiture, memori di Arcturus, Ved Buens Ende o dei semi sconosciuti Forgotten Sunrise, incastrate in un contesto non del tutto convenzionale (basti pensare ai beat di stampo industriale contenuti in “Opening the Shrine of Janus” o alle semplici parentesi space rock incluse nella stessa song, per non parlare poi del suo finale al limite del jazz) ha avuto il magnifico pregio di confondermi non poco le idee, spingendomi a focalizzare ulteriormente la mia attenzione sul sound proposto dal combo lombardo. Mi ritrovo a metà album e ancora faccio fatica a definire la musica dei nostri, perché “Daleth” spazza via ogni mia certezza con quell’acid jazz a la Thee Maldoror Kollective, mentre la successiva claustrofobica “Omen (Capricorn Vibe)”, che vede tra l’altro come ospite alla voce Aphazel degli Ancient, ci accompagna verso sonorità quasi trip hop. “Limbonica Mysteria”, già dal titolo richiama i già citati Limbonic Art, anche se musicalmente, la song, pur mantenendo una propria matrice ferale ancorata ai dettami del black norvegese, ogni tanto perde la strada maestra, per lanciarsi in un fluido viaggio psichedelico, orchestrato dalle splendide tastiere di Arcanus Incubus e ai samples disturbanti di Hexe ed Equinoxe. L’intermezzo esoterico della ottava traccia ci conduce alla selvaggia al contempo orchestrale (ah si dimenticavo che la sezione degli archi è affidata alla Bulgarian National Radio Orchestra), “Prometheus Unbound”, un brano in cui il quartetto paga dazio agli Enslaved per ciò che concerne le sue ritmiche. Si arriva alla conclusiva “May Wisdom Bless My Path” e già un’ora è volata via quando ci attendono ancora altri 13 minuti di psicotiche melodie che si dipanano attraverso atmosfere lisergiche, talvolta tribali che si frappongono a sfuriate metalliche sostenute da rutilanti blast beat, per un effetto finale che ha dell’incredibile e dove compare come ospite Wilderness Perversion dei Mortuary Drape, alla voce. Per concludere, non vorrei che l’aver citato più e più influenze derivanti dagli ambiti musicali più disparati, vi possa far credere che “Scoring a Liminal Phase” sia un album totalmente derivativo, mi viene piuttosto da affermare che partendo dalle basi di quei grandi artisti, la band italiana abbia saputo costruire un sound che difficilmente sarete in grado di trovare in una qualsiasi altra release di stampo estremo, pertanto il mio monito sarà alla fine “Guai a voi se non darete un ascolto a questo eccellente lavoro!”. Ottimo lavoro che si conferma anche nella scelta del booklet interno del cd, che sfoggia oltre ai testi delle song, uno splendido poster dal sapore misticheggiante. Sperimentali! (Francesco Scarci)

(BlackMetal.com)
Voto: 85
 

martedì 24 gennaio 2012

Sig:Ar:Tyr - Godsaga

#PER CHI AMA: Death Epic, Bathory, Primordial
Credo che le foreste canadesi possano essere, alla stregua di quelle norvegesi, grande fonte di ispirazione per le band provenienti dall’immenso paese del nord America. Di sicuro deve essere stato cosi anche per Daemonskald, factotum di questi impronunciabili SIG:AR:TYR, che con questo lavoro (il terzo della discografia), ci narra un po’ di vicende inerenti la mitologia nordica, attraverso un sound che, rifacendosi a quello dei Bathory più epici, ci consente di chiudere gli occhi ed immergerci con la fantasia, in mondi lontani, dove epiche battaglie, a suon di spade brandite nell’aria, si consumavano selvaggiamente. Non vorrei essere fuorviante però, non vorrei che immaginaste la musica dei nostri come una sorta di black epico, che faccia della furia il proprio credo, in quanto quello che scorre nei 57 minuti di questa release, ci offre invece un sound estremamente cadenzato, che non cede mai alla tentazione di cavalcate brutali, ma che invece propone tenui melodie impregnate di uno spirito tipicamente pagano. Ecco, provo a richiudere gli occhi e ciò che mi si para davanti è questa volta lo sfondo dei megaliti di Stonehenge e dei druidi che vi praticavano antichi rituali occulti: non saprei spiegarvi il motivo, ma la strumentale “Black Sun’s Bane” rievoca in me queste ataviche immagini. Con la successiva “Eternal Return”, sono gli echi dei Primordial più melodici e cupi ad emergere e se non fosse per quella voce rauca, priva della epicità dei Bathory o del growling possente di act più estremi, che rischia di essere la sola nota dolente di questo lavoro a causa della sua scarsa incisività, il voto sarebbe stato sicuramente più elevato. Poco importa tuttavia, anche perché ampio respiro viene lasciato alla musica, che alternandosi fra mid tempo di stampo vichingo, eleganti parti acustiche (di reminiscenza Agalloch) e fenomenali assoli di chiaro stampo classico (fantastica “Sleep of the Sword” a tal riguardo), relega decisamente in secondo piano la perfomance vocale del mastermind Daemonskald, che peraltro in questa terza opera ha dismesso del tutto l’uso delle clean vocals. La proposta del combo dell’Ontario tuttavia mi soddisfa e non poco; certo non propone nulla di particolarmente originale o che potrà rimanere negli annali della storia della musica metal, ma si lascia piacevolmente ascoltare, per quel suo feeling che assume talvolta connotati magici ma sempre permeati di una uggiosa inquietudine (ascoltate “Sonatorrek” per intenderci, altro pezzo strumentale di questo appassionato cd). Concludendo, i SIG:AR:TYR proseguono il discorso iniziato con i due precedenti lavori, migliorandosi di certo a livello di songwriting, ma lasciando ancora qualche lacuna a livello di composizione e melodie; si insomma, i Primordial sono ancora su un altro pianeta, però pian piano, il nostro baldo druido, potrebbe anche avvicinarsi ai maestri irlandesi. Da ascoltare, valutare e forse acquistare. Interessanti e rilassanti! (Francesco Scarci)

(Morbid Winter Records)
Voto: 75
 

domenica 22 gennaio 2012

Cradle of Filth - Darkly, Darkly, Venus Aversa

#PER CHI AMA: Black Gothic Symph
È un piacere per me, presentarvi l’ultima fatica dei Cradle Of Filth. Li avevamo lasciati con “Godspeed on the Devil’s Thunder”, sono ritornati con un capolavoro, un melodramma in musica, basato sulla storia di Lilith intitolato “Darkly, Darkly, Venus Aversa”. Questo nuovo concept album dei Cradle è suddiviso in due cd, uno con 11 track e un secondo con 4 brani. Il primo cd si apre con “The Cult Of Venus Aversa”, dove un bel clavicembalo dolce, dalla melodia settecentesca, fa da apripista, accompagnato da una voce femminile, che sembra quasi prepararci a questa esperienza musicale, e sembra quasi minacciarci quando dice “stanotte arrivo per te…” ed è vero, questo cd sembra avere una vita propria, delle proprie emozioni… Dopo questo attimo di tranquillità (non ve ne aspettate molti questo cd è totalmente violento, potente, devastante e come sempre erotico), il pezzo si concede a noi in tutta la sua brutalità: la batteria inizia le sue rullate veloci, la doppia cassa ci colpisce allo stomaco, le chitarre sono distorte, veloci, mai scontate, sempre in puro stile Cradle sia chiaro, tuttavia c’è da notare quale egregio lavoro sia stato fatto, quando scopriamo la voglia di usare riff diversi, lontani dai soliti canoni black o gothic. Dopo i sette minuti iniziali decisamente oscuri della opening track, ho come la percezione di respirare la stessa aria di “Midian”, per lo meno quella stessa creativa genialità. Passando a “One Foul Step From The Abyss”, una bella melodia di pianoforte ci dà il benvenuto, alla quale poi si attaccano ben presto delle melodie orchestrali, prima della deflagrazione del pezzo vero e proprio: brutale in pieno stile CoF, con i riff di chitarra che per tutto il pezzo si mescolano con le parti orchestrali innescando forti sensazioni, senza mai deludere, anzi meravigliandomi sempre di più, per la vena creativa di Dani (la cui voce è certamente più matura) e soci. Passo a “Retreat of the Sacred Heart”, il suo inizio ricorda “Glided Cunt”, ma è molto più cattiva con il rifferama sempre molto acuminato a supporto di ottime parti atmosferiche, vero pezzo forte di questo lavoro. “Persecution Song” mostra un’altra avvincente melodia di piano iniziale prima di abbandonare progressivamente la propria rilassatezza fino al ritornello centrale. In questa canzone c’è una perfetta amalgama tra i vari momenti (feroci e sognanti), come se si fosse in teatro ad assistere ad una rappresentazione, i cui atti però li ritroviamo in una solo brano. “Lilith Immaculate” si lascia ricordare per la bella voce femminile e il chorus centrale. Skippo velocemente (non vorrei tediarvi troppo) a “Forgive Me Father (I Have Sinned)”, (che è anche il primo singolo estratto dall’album e del quale è stato fatto il video) dove veniamo accolti da una bel riff di chitarra iniziale e dove rimango sorpreso dal modo di cantare di Dani che nella sua veste pulita, devo ammettere possedere una gran bella voce. Ritroviamo sempre la solita batteria quasi da sincope cerebrale, davvero questa volta i nostri hanno sovradosato il tutto con intelligente irruenza. Del secondo cd vorrei citare “Mistress From the Sucking Pit”, che ancora una volta si apre con un meraviglioso piano, che poi viene fagocitato dall’entrata distruttiva e potente della ritmica. Tutto in questo pezzo scorre veloce, dalla batteria frenetica e tipicamente black, al riffing distorto che sembra quasi tagliare l’orecchio all’ascoltatore, prima di trascinarmi verso la fine del pezzo, in un misto di sensazioni angeliche e demoniache, alle quali non sono stato in grado di sottrarmi. Il pezzo corre via, veloce come un'esecuzione di un condannato a morte, maledettamente trascinante, prima che le chitarre si mischino ad un assolo di piano pulito, morbido quasi delicato, che contrappone la propria dolcezza ed eleganza alla malvagità degli altri strumenti. Posso concludere questo viaggio nel mondo infestato da creature demoniache, consigliando caldamente l’acquisto e l’ascolto in religioso silenzio, affermando con certezza che per l’ennesima volta la band d’Albione, è riuscita a regalarmi le sensazioni che mi aspettavo, sebbene da più parti siano stati accusati di essere divenuti commerciali. Ebbene, mi trovo completamente in disaccordo con queste affermazioni perché la musica è l’unica cosa sulla quale ognuno di noi può vederla in maniera soggettiva: per me i Cradle non si sono venduti, ma sono semplicemente cresciuti ed evoluti artisticamente, nella vita si cambia, non si può fare solo musica da segheria… Che dire quindi, se non complimenti ai Cradle che per me hanno centrato di nuovo l’obiettivo, conferendo arte, stile, ed eleganza ad un genere un po’ troppo bistrattato. (PanDaemonAeon)

(Peaceville Records)
Voto: 85
 

Forgotten Sunrise - Ru:mipu:dus

#PER CHI AMA: Electro, Avantgarde, Death, Arcturus, Ulver
Con i Forgotten Sunrise pensavo mi sarei accostato ad una death metal band e in effetti è proprio in quel filone musicale che il gruppo estone si è fatto le ossa, pubblicando numerosi mcd durante l'intero corso degli anni '90. In “Ru:mipu:dus”, però, di death metal non vi è quasi più traccia e la nuova dimensione in cui il gruppo ha deciso di muoversi, non solo mette a dura prova qualsiasi tentativo di classificazione, ma lascia anche stupefatti per l'estrema disinvoltura dimostrata dai quattro musicisti nell'abbracciare svariati generi musicali e nel plasmarli in un insieme omogeneo di brani. Se di ibrido si può parlare, il termine va quindi inteso nella sua accezione positiva, vista anche la distanza che i Forgotten Sunrise mantengono da certe soluzioni pacchiane o da quelle scelte infelici in cui si è soliti incorrere quando diventano troppi gli ingredienti da mescolare assieme. Al contrario, le morbide venature darkwave, le eccentriche contaminazioni elettroniche e i retaggi vocali death metal diventano inebrianti flussi di emozioni, che si incontrano seguendo movenze sinuose ed eleganti. La flebile voce della cantante Tiiu Kiik conferisce inoltre un tono di cupo astrattismo all'intero lavoro, rendendo veramente speciali le note di brani visionari come ''Never(k)now” e “Vhatsoewer”. Personalmente, abituato come sono a grugniti di ogni sorta, non ho faticato ad apprezzare nemmeno il growling di Anders Melts, tuttavia, dovendo essere obiettivo, penso che quest'ultimo aspetto potrà costituire un ostacolo non indifferente per gli ascoltatori dai palati più fini. A loro mi rivolgo, invitando a non snobbare “Ru:mipu:dus” e a godere invece di canzoni giocose e bizzarre come “Surroundcosmos” o “Please Disco-nnect Me”, l'una illuminata da un irresistibile ritmo di pop latino, l'altra introdotta addirittura da una suoneria Nokia! Ottima anche “Thou-Sand-Men”, dove Anders si cimenta in un'interpretazione vocale molto vicina allo stile di Brendan Perry, dimostrando di esserne un emulo convincente e lasciando supporre un'influenza Dead Can Dance abbastanza marcata. Chiudo segnalandovi il video di “Never(k)now”, presente nel cd e disponibile pure sul sito della My Kingdom Music, dove potrete scaricarlo nella sua versione integrale. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 75
 

Flëur - Magic

#PER CHI AMA: Ethereal Folk
La Prikosnovénie non poteva inaugurare in modo migliore le sue pubblicazioni di primavera se non con questo nuovo lavoro dei Flëur: “Magic”, opera seconda per il progetto proveniente da Odessa, città situata nella parte meridionale dell'Ucraina. Il gruppo (ma sembra riduttivo volerlo chiamare con questo nome!) si compone di ben undici musicisti, tra i quali spiccano le due cantanti e principali compositrici/liriste Olga Pulatova ed Elena Voynarovskaya. La lista degli strumenti suonati in quest'album è tale da far intuire subito cosa ci aspetta dall'ascolto: flauto, violoncello, violino, percussioni, pianoforte, per citarne qualcuno... sicuramente un lavoro di musica eterea, ma non la "solita" musica eterea! I titoli delle canzoni sono tutti in inglese, come a voler permettere all'ascoltatore di catturare l'idea che ha generato ogni pezzo, ma i testi sono in ucraino e l'espressività musicale di questa lingua è decisamente unica. Il titolo “Magic” sembra proprio calzare a pennello, l'album è infatti un sentiero magico costellato di tredici melodie che accarezzano l'anima, cullandola dolcemente attraverso immaginari fiabeschi dalle tinte tenui, delicatissime. Olga ed Elena si alternano alla voce accompagnate da un trionfo di armoniose tessiture di melodie pop impreziosite da eleganti disegni neoclassici, ma spesso i Flëur sembrano attingere anche dalla tradizione russa, o almeno così appare ad orecchie profane come le mie cui sembra di percepire nel cantato ritmato di alcune canzoni quali “Never”, “The Russian Roulette” e “Horizon” echi di una tradizione slava, comunque fortemente ed egregiamente contaminata da sonorità più attuali. L'avvicendarsi di Olga ed Elena alle voci, oltre a caratterizzare il lavoro di una certa varietà, segna anche tangibili differenze stilistiche nei brani, così che a Olga, dalla voce più severa e che si accompagna sempre al piano, sono affidati i brani di connotazione decisamente pop, dove gli strumenti a corda creano melodie più morbide e classicheggianti (“The Emptiness”, “Formalin”, “Repair”, “I Will Do it” e “The String” sono tra le più caratteristiche in tal senso), mentre Elena, che si accompagna con la chitarra classica ed è dotata di una timbrica più dolce, canta nei brani più raccolti e spesso malinconici, dove emergono influenze folk o che sono caratterizzati da ritmiche più decise (“Almost Real”, “The Ballad of White Wings and Scarlet Petals”, “Medaillion”). Lasciatevi ammaliare dai Flëur, scoprirete un mondo abitato da fate e sogni che non vorrete mai abbandonare. (Laura Dentico)

(Prikosnovénie)
Voto: 80
 

Frailty - Lost Lifeless Lights

#PER CHI AMA: Death Doom, Saturnus
Ed eccomi stavolta, a parlare di una band, i Frailty, in circolazione da otto anni, nella lontana (ma non tanto) Lettonia: l'album che mi accingo ad illustrare risale al 2008, il loro primo full-lenght. Le tematiche sono concentrate prevalentemente sulla morte e spiritualità, con qualche accenno alla mitologia. L'intro sembra preparare l'ascoltatore ad un viaggio nelle profondità dell'animo umano, avvalendosi di suoni distorti e caotici: “I Know Your Pain” e “The River of Serpents” ricalcano perfettamente il sound del doom/death, con suoni pesanti e lenti, esprimendo al meglio il messaggio di dolore e malinconia che traspare dai testi. Batteria e chitarra ripetono lo stesso motivo, mentre verso la fine lasciano spazio a note di pianoforte, in modo tale da accrescere il pathos. “Ariadne” è più veloce e meno pesante, mentre Martins viene accompagnato da Edmunds nei ritornelli, dando così l'impressione di solennità per questa ode ad una fanciulla perduta; persino l'assolo di chitarra illustra molto bene il peso della perdita, aiutata anche da note di tastiera appena percettibili. Si torna alle atmosfere cupe ed introverse con “Graphics in Ebony”, dove il growl si alterna ad una voce melodica e grave, con un'atmosfera, oserei dire, magica ed eterea: è solo dalla metà in poi che il tono diventa più sul demoniaco andante (oserei dire pseudo-isterico), ma senza mai perdere la vena doom/death che li caratterizza. “The Fall of Eve” segue lo stile della precedente, ma con un timbro più melodico, rendendo il tutto di più facile ascolto. È con “A Summer to Die” che le cose cambiano: il cantato ricalca quello precedente di “Graphics in Ebony”, avendo cura di curare il ritornello in modo tale da renderlo anche canticchiabile ed orecchiabile (senza mai cadere nel commerciale più blando). La malinconia più nera fa da sfondo per “The Scorn”, il brano più longevo di tutto l'album; note di pianoforte introducono una chitarra distorta e una batteria pacata, con la voce più grave che Martins possa mai trovare. Sebbene all'inizio il motivo sia lento, soltanto poi inizia ad essere più accelerato, con la voce demoniaca (di cui sopra) e un loop di chitarra unito alla batteria che si ripete, sottolineando la solennità della morte; si torna poi alla lentezza dell'inizio, come una sorta di mare scuro con le onde inerti che si ripetono ogni volta. Chicca del brano: un momento di totale tristezza e fatica, in cui persino il cantante pare fatichi a parlare. Il brano prosegue e si conclude con un assolo di chitarra molto tranquillo, quasi ad aver esaurito tutte le forze. Con la cover dei Monro di “Lugsana” si conclude l'album: un ottimo brano per finire in bellezza un viaggio all'interno del doom/death lettone, che nulla ha da invidiare ad altre band maggiori o più conosciute. Per chi ha voglia di esplorare il metal proveniente da stati “neonati”, questa è un'occasione da non perdere. (Samantha Pigozzo)
 
(Solitude Productions)
Voto: 70
 

Maryposh - La Luna Insegue il Sole

#PER CHI AMA: Rock Psichedelico
I Maryposh sono bravi e la differenza tra loro e un gruppo professionista non c'è. Con questo potrei chiudere qua la recensione perché stiamo parlando di una band e del loro album, perfetto per il grande salto. Se il mercato discografico avesse una giustizia sua, farebbe sparire tutta l'inutilità, la mediocrità e l’indolenza che ci propinano e darebbe spazio a musicisti che hanno molto da dire. "La Luna Insegue il Sole" è un album rock con alcune influenze pop che vengono spazzate via dalle stupende chitarre di Diego (anche autore dei brani), dalla psichedelia di alcuni arrangiamenti, dal violino cattivo e ammaliatore di Laura e dalla voce suadente di Veronica. "Angelo Nero" apre il cd in maniera degna, con dei bei riff di chitarra che richiamano i Tool e la ritmica incalzante di batteria e basso. Un pezzo che invece si insinua nel subconscio è "Guinzaglio", lento ma al contempo violento, anche nelle parole stesse che non sono mai banali e scontate. Bisogna dire che gli arrangiamenti e la post produzione hanno dato qualcosa in più al pezzo che comunque è apprezzabilissimo anche in versione unplugged (ve li consiglio). La quinta canzone, "Vino Rosso", è la dimostrazione che si può scrivere un bel testo anche senza parlare di amori e tradimenti, ottima pensata messa in pratica sempre in maniera impeccabile. Le parole di Veronica e l' archetto di Laura ondeggiano nell' aria e amoreggiano continuamente con le dure corde di Diego e compagni. Questo dualismo tra il bene e il male ripercorre un po’ in tutti i pezzi, come una continua danza di corteggiamento, dove le parti si toccano e si allontanano subito. All'infinito. Scusate per questa recensione più emozionale che tecnica ma ormai poca musica fa quest'effetto. Purtroppo. (Michele Montanari)

(Totally Unnecessary Records)
Voto: 85
 

Nerve End - Axis

#PER CHI AMA: Djent, Experimental, Swedish Death, Devin Townsend
Ma quante diavolo di band ci sono in Finlandia (e dire che sono poco più di 5 milioni di abitanti), ma soprattutto come è possibile che il livello qualitativo medio sia sempre cosi elevato? Domande a cui non riuscirò mai a dare delle risposte, ma ben venga, se ogni giorno troverò chi sia in grado di infondermi piacere con una semplice proposta musicale. I Nerve End arrivano dalla sconosciuta cittadina di Joensuu e un paio di mesi fa hanno rilasciato questo inaspettato EP (il secondo) di quattro pezzi in un pregevole formato digipack. La proposta del quartetto lappone? Beh semplice no: prendete la follia di Devin Townsend, delle belle schitarrate djent, tonnellate di riff catchy e grondanti atmosfere grooveggianti, il tutto spruzzato da una melodia squisitamente swedish (scuola In Flames) e bagnato in sonorità progressive, et voilà i giochi sono fatti, che ne dite? Sulla carta sembra facile, ma vi garantisco che servono le palle quadrate per proporre un simile sound e i nostri sembrano proprio avere gli attributi giusti per promuovere questo tipo di musica. La classe d’altro canto non si compra al mercato, è insita nei nostri e se alla base non ci fossero degli ottimi musicisti, con le due asce che si intrecciano in sofisticati giochi chitarristici, con la voce di Joonas a richiamare quella del genietto canadese, e con una sezione ritmica (basso e voce) esplosiva, saremo qui a parlare di una qualsiasi anonima band proveniente da un qualsiasi anonimo paese del mondo. Ma i Nerve End, con i loro quattro pezzi (e solo per questo mi sono mantenuto basso col voto), sfoderano una prova convincente al secondo tentativo (l’EP del 2010 non ho ancora avuto modo di ascoltarlo, ma andrò di sicuro a recuperarmelo). “Venom Willow”, “Axis of Rotation” forse i pezzi migliori: intraprendenti, imprevedibili, folli, forse già pronti a strappare lo scettro al buon Devin, grazie ad una proposta davvero convincente. Esaltanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

Moloken - Rural

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge
Li avevamo lasciati poco più di un anno fa, nell’autunno del 2010 con il loro primo brillante full lenght, “Our Astral Circle” e ora finalmente ritornano i fratelli Bäckström, come sempre egregiamente supportati dalla Discouraged Records, con un nuovo lavoro. Il sound non cambia cosi palesemente rispetto al precedente album, e di certo non può essere un male, se eravate rimasti piacevolmente impressionati da quella release. La musica dei nostri continua dunque a viaggiare in territori post metal/sludge, di quello però dalle tinte più fosche, meno accessibile, più carico di rabbia e di certo meno pregno di facili melodie. “Rural” è un album incazzato, mettetevela via. Nelle sue sette song e nei suoi lunghi cinquanta minuti, alterna umori che serpeggiano tra il furibondo e l’irascibile, lasciando saltuariamente spazio a frangenti al limite del post rock (la seconda metà di “Ulv”). Quel che mi stupisce maggiormente nella nuova opera dei Moloken, è una certa combinazione nei suoni che escono dalle corde delle chitarre, talvolta veramente deliranti o del tutto disarmonici (penso al finale psicotico di “Waltz of Despair” per esempio o all’ipnotico inizio della già citata “Ulv”, song pachidermica – della durata di 16 minuti – feroce ma al contempo oscura, che rimembra quei vaneggiamenti di scuola Ved Buens Ende), che contribuiscono a disorientare non poco l’ascoltatore. La tribale e schizofrenica “Casus” funge da ponte di connessione con “Blank Point” e a poco a poco inizio a realizzare quanto di buono sia contenuto in “Rural”, un lavoro a dir poco controverso, sicuramente di difficile digestione, ma data la sua complessità, dall’importante divenire. Le vocals di Niklas continuano ad essere al limite del cavernicolo, cosi come sottolineato nella precedente recensione, ma poco importa in quanto misuro la band nella sua capacità di variare le proprie sonorità e vi garantisco che non c’è un attimo di tregua in cui si corra il rischio di appisolarsi o adagiarsi, sebbene si abbia l’impressione che il sound dei nostri possa talvolta rimanere intrappolato in sonorità doomish o addirittura psichedeliche (e penso alla soffocante e malata “Thin Line”); nessuna paura però, perché il quartetto di Holmsund ne esce ancor più inferocito e pronto a maciullarvi le ossa. Sono sconquassato dall’irruenza dei nostri, dal loro cupo grigiore, quasi stessi osservando il sole che tramonta veloce all’orizzonte, lasciando ben presto il posto ad una fitta nebbia che si impossessa dell’oscurità della notte. Ostili, nevrotici, glaciali, paurosi; sono solo alcune degli aggettivi che escono dalla mia mente dopo l’ascolto di questo deturpante “Rural”, album da avere ad ogni costo nella vostra collezione. Farneticanti! (Francesco Scarci)

(Discouraged Records)
Voto: 85
 

Huldra - Signals from the Void

#PER CHI AMA: Post Metal, Ambient, Isis, The Ocean
Navigare nel web è un po’ come visitare una galleria d’arte: puoi ammirare qualcosa di meraviglioso oppure puoi avere la sfortuna di incorrere in qualcosa difficilmente intellegibile o addirittura privo di senso. Quest’oggi devo ammettere di essere stato assai fortunato e il trovarmi fra le mani l’EP d’esordio degli statunitensi Huldra, rappresenta una buona medicina per superare queste gelide giornate invernali. Il quintetto di Salt Lake City ci ammalia fin dalle prime note con un post metal atmosferico che subitamente richiama alla memoria i maestri Isis e The Ocean, e sinceramente, avendo grande nostalgia per la band di Boston ed essendo un grande fan del collettivo di Berlino, mi lascio immediatamente cullare dalle sonorità proposte dai nostri. Si parte piano, quasi in punta di piedi con “A Signal Permeates the Sky”: i primi cinque minuti sono dominati da chitarre vellutate, sonorità darkeggianti, vocals pulite, ritmiche blande e suoni dilatati (sludge, si confermo), prima che l’ensemble nord americano sprigioni la propria forza dirompente, scatenata da una sezione ritmica pregevole e dal growling furente di Matt Brotherton. Ma è solo un fuoco di paglia perché la rabbia dei nostri dura pochi minuti, prima di lasciare ancora una volta il posto a notturne sonorità post rock, che anticipano l’esplosione finale, che mi fa innamorare immediatamente del suono di questa new sensation d’oltreoceano (esiste infatti solo dal 2009). Un intermezzo ambient/noise fa da ponte alla successiva “Ashen Lips”, che si apre con un arpeggio e una ancestrale melodia; i toni sono soffusi (chi ha citato i Mogwai?), la voce lamentosa e in sottofondo, ma la tensione è palpabile, non vi è tranquillità, si intuisce che qualcosa sta per accadere e poi, eccola la fragorosa esplosione delle chitarre e del growling possente di Matt. Eh si, il gioco della prima song si ripete anche in questa seconda traccia, che nei suoi dieci minuti abbondanti incanta per i suoi cambi di tempo, per quegli effetti cosi tanto posti in sottofondo da risultare a dir poco ipnotici; le chitarre si incrociano in duetti da lasciarci senza fiato, e il vocalist dà sfoggio di una eccellente performance vocale. Sono estasiato e non mi accorgo che un altro intermezzo mi accompagna alla conclusiva “A Foothill Lies on the Backside of the Mountain that Looms Before us”, undici minuti che si aprono in modo tenebroso, angosciante, ma ormai so già cosa attendermi, mi sono preparato al sound dei nostri: mi stanno solo tendendo una trappola, dove non voglio assolutamente cadere. Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi. Le note sono deliranti, le vocals cariche di pathos, malinconiche; le chitarre si rincorrono affannose in quest’ultimo drammatico saluto, che chiude un lavoro di tre pezzi (per 42 minuti di musica spaccati), che ha il pregio di conquistarci sin dalle prime battute e deliziarci nonostante la lunghezza delle sue suite. Una sola parola per gli Huldra: sublimi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

lunedì 16 gennaio 2012

Never Die - The Source of Black Waters

#PER CHI AMA: Death Symph, Trail of Tears, Tristania
“The Source of Black Waters” rappresenta il secondo lavoro per la band russa Never Die, fautrice di un death gotico di pregevole fattura. Non deve trarre in inganno infatti l’attacco brutal death che segue la intro del cd, “Ejected from the Dephts” e le orrorifiche growling vocals di Regina Mukhamadeeva, che sembra quasi la reincarnazione russa della nostrana Cadaveria; il sound del sestetto di Bashkortostan assumerà ben presto connotati più umani e melodici, già a partire dalla seconda parte di “Ejected from the Dephts”, dove a contrastare la furia dei nostri ci pensa la versione da soprano della brava Regina. Dopo la tempesta impetuosa del primo pezzo, i nostri, pur mantenendo un sound bello potente, con una ritmica costantemente martellante, piazzano li una serie di pezzi che si fanno notare per una marcata dinamicità di fondo, un più che discreto tecnicismo, e interessanti parti atmosferiche che ben si incastrano nel tessuto ben oliato di questa inaspettata macchina da guerra, senza tralasciare le operistiche vocals femminili, che alla fine risultano essere il solo punto di contatto che la band può avere con il gothic metal sinfonico. Mi ha sorpreso infatti leggere sul flyer informativo che la band proporrebbe un death gothic, mi verrebbe più da etichettare il tutto come un techno death accompagnato da voci da soprano, e vi garantisco che “Inner Sense” sintetizzerebbe alla meraviglia il tutto. La musica dei nostri non gode infatti di momenti di pausa (se vogliamo escludere la melensa “Sunstroke”), è un caterpillar irrefrenabile che spazza via qualsiasi cosa incontri sul proprio percorso, tanto che alla fine del cd, l’unica cosa che alla fine trovo fuori luogo finisce per essere proprio la versione più angelica della voce di Regina, altrimenti avrei apprezzato maggiormente la tumultuosa release di questo ensemble proveniente dalla gelida Russia. C'è ancora margine di miglioramento, quindi diamoci da fare! (Francesco Scarci)


(Darknagar Records)
Voto: 65

Raven Tide - Ever Rain

#PER CHI AMA: Gothic, Dark
Ricevo l'album, guardo la copertina e il retro cd e noto che sono italiani. Bene! Dopo i miei “giri” per l'Europa del nord, mi accingo a recensire una band di Prato, per di più composta da una bella fanciulla e tre cavalieri di nero vestiti, formatisi nel “vicino” 2009. Si parte con "Stillness", song caratterizzata da sonorità elettroniche e da melodie ricordanti tematiche medievali (l'immagine che traspare è un castello merlato con attorno campi sterminati brulli, su cui si svolgono le tipiche battaglie). Tralasciando l'ettronica, con "Alfirin Alagos" si prende il sentiero del gothic metal, caratterizzato da tastiere che accompagnano la suadente voce di Cheryl, mentre Shark, Fred e Mark (rispettivamente chitarra, basso e batteria) rimangono sullo sfondo, senza essere mai troppo invadenti. Il risultato è un brano di facile ascolto, tranquillo e dolce. Con "Doom Reveil" il sound cambia radicalmente, tornando all'elettronica della opening track: un connubio, quello con la voce dolce e pulita, che risulta molto commerciale e adatto ad un pubblico più femminile. Con "End to the Flame" i toni rasentano la calma e l'acustica più assoluta, con il pianoforte e la voce di Cheryl, per un brano in cui a trasparire c'è solo tanta tristezza e malinconia, sottolineate anche dall'assolo di chitarra che si presenta solo da metà brano in poi. Con "Lucifer Bliss" il sound si fa più duro, grazie all'apporto di Giovanni Bardazzi, vocalist proveniente dai Raze and Symbiotic; ovviamente l'aria dolce e femminile di tutto l'album non ne risente in alcun modo, ma viene semplicemente confrontata con il growling di Giovanni, in quello che risulta una sorta di “la Bella e la Bestia”. Si chiude così questo primo lavoro, più adatto - come detto prima - ad un pubblico di giovincelle che si accostano per la prima volta al mondo del metal, senza traumi. Sebbene per i più metallari questo album possa sembrare fin troppo leggero, questa band ha della stoffa per creare altri album di impatto e qualità maggiore. Staremo a vedere (e sentire) i prossimi lavori. (Samantha Pigozzo)

(UK Division)
Voto: 60

Torsense - World of Harmony Without You

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Ritorniamo a recensire un buon cd di un gruppo di origine russa, i Torsense: “World of Harmony Without You” contiene 10 brani. Dopo i consueti preamboli iniziali, parliamo in dettaglio delle song. Il cd sin dal suo inizio suona potente, deflagrante, dannatamente ritmico e brutale, scevro di qualsiasi momento di rilassamento ma anzi tutto il contrario; questo è un lavoro che coinvolge, ti trascina con sé, nel suo mondo, nella sua dimensione. Detonanti mi viene da pensare. Le armonie musicali non sono mai scontate anche se legate strettamente al genere, tuttavia il combo russo ha trovato una propria dimensione, un proprio mondo, una propria strada e questo non ci può fare altro che un gran piacere. Il cd scorre veloce, musicalmente e ritmicamente potente e cattivo. In tutto il lavoro, si percepisce la voglia di dare una propria impronta, senza per forza scadere in quella sensazione di noia da ripetitività; in ogni brano, in ogni ascolto c’è da scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa di piacevole. Qui troveremo chitarre pesanti, una batteria che esplode in una ritmica selvaggia; ci sono poi le parti orchestrali e la suadente voce femminile, sempre assai elegante. “World of Harmony Without You” è un uragano nel cervello, come pochi... Pezzi come “Thunderstorm”, “Aridization”, “Immersion In To Darkness” o “Quake Of The Earth“, sono pezzi che danno l’idea della brutalità dei nostri con un sound devastante, ispirato ai maestri del genere, Cradle Of Filth (dei primi lavori), e Dimmu Borgir, per quelle atmosfere cupe contrapposte alla pomposa sinfonia che popola questo lavoro. Cosa interessante dei Torsense è poi il cantato, rigorosamente in lingua madre (russo), che rende il tutto ancora più particolare ed affascinante. Il decimo pezzo è una bonus track, e devo dire che, anche se è la song che chiude il lavoro, arriva dritta nella testa e nello stomaco. Questo lavoro sintetizza in sé, bravura musicale e creatività, il che vi farà venire voglia di riascoltarlo, sicuramente acquistarlo e tenerlo nella nostra discografia. Non vi annoierete di certo ad ascoltarlo, in quanto i ragazzi russi hanno preso la strada giusta e meritano di essere seguiti; in attesa di un loro secondo lavoro (non fateci aspettare troppo però), il mio pollice vira verso l’alto; bravi ragazzi, andate forte, i nostri occhi sono puntati piacevolmente su di voi. Alla prossima. (PanDaemonAeon)

(Grailight Prod.)
Voto: 75

http://www.myspace.com/torsenseband

Funeral - As the Light does the Shadow

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Yearning
A distanza di poco più di un anno dal fortunato “From These Wounds”, tornano alla ribalta i norvegesi Funeral, portatori di suoni oscuri, malinconici, a tratti catacombali, che tuttavia, rispetto alle origini hanno saputo fare modificare qualche aspetto del proprio stile, rivedendo in primis, ad esempio, l’uso della voce, non più growl come nel loro debut, ma che si rifà chiaramente ai maestri del doom, gli svedesi Candlemass. Questo lavoro della band scandinava continua pedissequamente quanto proposto nel precedente lp: sonorità assai rallentate al limite del funeral, atmosfere ossessive e claustrofobiche, sorrette dai classici riffoni ultra distorti delle chitarre. Una voce lamentosa, a tratti epica (in stile Yearning), contribuisce poi ad accentuare il lato più melodico dei nostri, senza però tuttavia convincermi del tutto. Quello che invece più mi ha affascinato sono le terrificanti orchestrazioni che la band costruisce, ambientazioni drammaticamente laceranti l’anima, con quel loro incedere funereo. Tristezza, desolazione e dolore, ma anche eteree orchestrazioni gotiche, sono le armi vincenti di questo disco, che sicuramente non rappresenterà un masterpiece per le generazioni future, ma che comunque piacerà a chi non riesce a fare a meno della profonda oscurità della notte. Criptici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 70
 

domenica 15 gennaio 2012

Enslaved - Vertebrae

#PER CHI AMA: Death Black Avantgarde
L’esplorazione musicale fa parte del DNA di uno dei gruppi storici della scena black norvegese, gli Enslaved. Nati come una black metal band, il quintetto nordico, ha saputo evolvere il proprio sound attraverso un percorso stilistico senza precedenti, miscelando prima il black al viking e poi volgendo la fiamma nera verso sonorità progressive, che hanno contribuito a definirli i “Pink Floyd dell’estremo”. E cosi, ci troviamo finalmente tra le mani questo “Vertebrae”, che riprende sostanzialmente il discorso iniziato in “Monumensium” (l’album a cui s’ispira maggiormente questa nuova release) e poi proseguito brillantemente, attraverso i vari “Below the Lights”, “Isa” e “Ruun”, che tra l’altro portò alla vittoria la band, nei Grammy Awards norvegesi. “Vertebrae” non rinnega le radici black dell’act scandinavo (soprattutto nell’uso delle vocals più ruvide che si alternano alle clean vocals), ma è un viaggio psichedelico, in cui i nostri ci accompagnano alla scoperta di sonorità sempre più sperimentali, tenendo come punto di riferimento gli epocali Pink Floyd (meravigliosa “Ground”, con quel rifferama che ricalca lo stile di Dave Gilmour e soci e con quel nostalgico apporto dell’hammond che ci catapulta direttamente negli anni ‘70), arricchendo inoltre il proprio bagaglio stilistico, di una componente alternativa, che ci riporta alla mente i Tool. L’atmosfera che si respira in questa nuova release (la decima per la band) è cupa e angosciante, secondo me grazie al lavoro alla consolle di Joe Barresi (Tool e Queens of the Stone Age), in grado di enfatizzare il lato più malinconico del combo norvegese. Non mancano le sfuriate estreme, basti ascoltare la quinta traccia “New Dawn”, vera e propria cavalcata nei meandri del black metal, interrotta soltanto dai vocalizzi cibernetici di Grutle. La cover artwork visualizza il concept lirico di “Vertebrae”: una vertebra nel mezzo della copertina che simbolizza la potenziale forza dell’umanità e al tempo stesso il proprio fragile centro nevralgico; le vene che dipartono da qui, rappresentano poi la connessione tra mente e carne. Insomma, ennesima brillante uscita per i poliedrici Enslaved, che inanellano un successo dopo l’altro, proponendo un suono avanguardistico, che non potrà non piacere né ai fan dell’ultima ora, né ai vecchi black supporter della band, né a chi col black metal ha ben poco da spartire. Eclettici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 80
 

Flauros - Monuments of Total Holocaust

#PER CHI AMA: Black Symph. Dimmu Borgir, Thyrane
Era il 2000 e il titolo altisonante non lasciava presagire niente di buono su questo mcd, ma una volta inserito il disco nel lettore i finlandesi Flauros si sono rivelati una piacevole sorpresa. Sebbene il gruppo non proponga nulla di eclatante in quanto a originalità, riesce comunque a farsi apprezzare, assestandosi su standard ben al di sopra della media. "Monuments of Total Holocaust" è un mcd di cinque brani dal sapore molto epico, supportati da un sound ruvido e da una ferocissima prestazione vocale che finalmente non ha niente a che vedere con l'imbarazzante gracchiare di tanti altri singer. Non mancano melodia ed inserti di tastiere che comunque sono usati con parsimonia e trovano il loro spazio qua e là, senza apparire "ruffiani" o stravolgere la struttura del brano. Se dovessi azzardare un paragone, senza scomodare le inevitabili influenze di nomi più storici, accosterei lo stile dei Flauros a quanto fatto dai conterranei Thyrane sul debutto "Black Harmony". Devo ammetterlo, questi finlandesi mi hanno colpito ed era da tanto che non sentivo una band così valida tra le nuove leve! (Roberto Alba)

(The Twelfth Planet Rec.)
Voto: 70

Firewerk - Circuit and Curses

#PER CHI AMA: Industrial Metal, KMFDM
Sorprendenti questi Firewerk! Sorprendenti quanto sconosciuti, verrebbe da aggiungere. Eppure “Circuits and Curses” rappresenta il loro secondo album autoprodotto e a quanto pare vantano anche un discreto seguito all'interno della scena underground di Detroit, la loro città d'origine. John e Matthew Cross, Tony Hamera e Alex Bongiorno: un gruppo di ragazzi estremamente affiatato che con sè porta delle idee molto chiare sulla direzione stilistica da seguire e non fa segreto nemmeno delle proprie fonti ispiratrici, mettendo in musica un bagaglio di influenze che vanno dai Ministry agli Skinny Puppy, da Gary Numan ai KMFDM. In particolare, è proprio del marchio KMFDM che il gruppo si dimostra debitore, offrendone però una variante piuttosto personale che evita qualsiasi tentativo di "plagio" nei confronti della storica band tedesca. “Circuits and Curses” segue di due anni l'uscita del debutto “Amplified Fragments” (datato 2002) ed è composto da undici brani di industrial metal suonato divinamente, così divinamente che ci si chiede per quale motivo un gruppo tanto capace sia costretto ad autoprodurre i propri lavori. Difatti, alla luce di quanto si poteva ascoltare già nel loro primo album, il fatto che nessuna casa discografica abbia dimostrato interesse verso i Firewerk appare quanto meno strano e rafforza ancor di più la convinzione che l'attenzione verso l'underground musicale sia sempre meno focalizzata a setacciare i talenti laddove vi è qualcosa di realmente valido. Ad ogni modo, “Circuits and Curses” non necessita dell'appoggio di una grossa label perché emerga il suo valore, basti ascoltare brani come “Chase Scene”, “Illusions” o “Pray” per accorgersi di una produzione dal suono limpido e impeccabile, di una programmazione dei synth intelligente e addirittura invidiabile per la sua perfetta integrazione nello scheletro ritmico dei pezzi, ma soprattutto si evince una dote rara, quella di riuscire a trasformare la semplicità strutturale del proprio songwriting in una collezione di brani potenti e dal refrain irresistibile, la cui energia è sempre convogliata ai centri nervosi più ricettivi. Contattate il gruppo e ordinate una copia di “Circuits and Curses”, non ve ne pentirete! (Roberto Alba)

(Self)
Voto: 75
 

Faith and the Muse - The Burning Season

#PER CHI AMA: Gothic/Dark Wave
Un colpo di frusta: comincia così il nuovo album dei Faith And The Muse, che si apre con la breve e tirata “Bait & Switch”. “The Burning Season” rappresenta il quarto lavoro in studio, se si vuole escludere il doppio cd “Vera Causa”, uscito nel 2001 a celebrare la carriera di William & Monica, album che era stato presentato come un lavoro completamente diverso da ciò che avevano proposto in passato e addirittura in grado di destabilizzare i vecchi fan, che avrebbero anche potuto far fatica ad accettare un mix di generi così variegato e bizzarro per un gruppo che nel corso di dieci anni ha fatto del proprio stile un punto di forza. Da grande ammiratrice dei Faith And The Muse, che sono IL mio gruppo preferito praticamente dal loro debutto “Elyria” del 1994, avevo finito con l'attendere quest'album addirittura più di tutti gli altri lavori da loro pubblicati ed ero pronta a tutto... tuttavia, non era necessario corazzarmi di buona disposizione, dal momento che non è stato affatto difficile per me innamorarmi subito di “The Burning Season”, un album sì estremamente vario, ma anche decisamente riuscito! I Faith And The Muse si muovono con sorprendente disinvoltura e naturalezza tra generi tanto diversi tra loro, senza mai risultare eccessivi o sgraziati, ma anzi, evidenziando una versatilità davvero notevole... dodici canzoni infuse di un'energia fresca, ispirata, canzoni assemblate in modo da saltare da un genere all'altro e tuttavia capaci di creare un tutt'uno organico che ha un senso intrinseco indipendentemente dalle parti delle quali è composto. Un mosaico di stili, una tavolozza di colori, un album sentito intensamente, dal quale traspare tutta la passione che il duo americano ha messo in questo lavoro. Se non sorprende, per chi conosce le origini della carriera di Monica Richards, l'abilità con cui la sua voce riesce ad adattarsi in modo perfetto agli aggressivi ritmi punkeggianti di canzoni quali “Sredni Vashtar” e “Relic Song”, colpisce invece la sua predisposizione anche per un genere apparentemente ben distante da quello che ci si potrebbe aspettare siano le sue influenze principali, e così stupisce la carnale sensualità con cui affronta una lenta canzone jazz, “Gone to the Ground” (la quale vede la partecipazione di Matt Howden al violino). Forse “Bouddicea” e “Willow's Song” sono le canzoni che richiamano in modo più incisivo lo stile più tipicamente Faith And The Muse del passato, di album quali “Elyria” ed “Evidence of Heaven”. Nella eterea e severa “In the Amber Room” si possono riconoscere echi lontani dei Cocteau Twins. Ma le canzoni che preferisco in assoluto sono la title track, “Whispered in Your Ear” e “Visions”, calde ed avvolgenti e con una spruzzata di morbida elettronica, donano nuovo spessore alla voce di Monica e sono i momenti più esaltanti e indovinati di tutto l'album, assieme a “Failure to Thrive”, cantata da William Faith e molto darkeggiante. Ritengo che a questo punto della loro carriera William & Monica non potessero che sentire il desiderio e la necessità di dare nuova luce e nuova freschezza alle loro canzoni e questa decisione non può che essere rispettata, data l'esperienza ormai acquisita dai due, che ha permesso loro di affrontare con eleganza e sicurezza un cambiamento così drastico, del quale, tuttavia, si era già visto qualche accenno, a mio avviso, nella scelta delle canzoni che dovevano far parte del primo dei due cd di “Vera Causa”. Per tutti coloro i quali si possono essere sentiti traditi da un album come “The Burning Season”, consiglio di ascoltarlo bene e senza pregiudizi, cercando di entrare nello spirito vero delle canzoni, senza timore di trovare troppi elementi estranei a ciò che hanno sempre riconosciuto nei Faith And The Muse. “The Burning Season” è davvero un bell'album. (Laura Dentico)

(Out of Line)
Voto: 80

martedì 10 gennaio 2012

Black Flame - Septem

#PER CHI AMA: Black Death, Behemoth, Incantation
Diabolica paura agghiacciante! È forse la combinazione di queste tre parole a riassumere il contenuto del come back discografico dei torinesi Black Flame. Da sempre Torino, rappresenta la culla della magia e dell’occultismo, delle forze soprannaturali, vertice di due triangoli magici: il primo, quello bianco, con Lione e Praga, mentre il secondo, quello nero, assieme a Londra e San Francisco. Tutte queste forze si incontrano o forse si scontrano già nel triangolo letale posto sulla cover cd (ad opera peraltro di Niklas Sundin dei Dark Tranquillity) e poi nelle note di questo feroce, oscuro e malvagio lavoro che segue a distanza di tre anni (ancora ricorre questo numero) “Imperivm”. La musica dei nostri è un connubio di black death votato alla fiamma nera, che riprende la violenza della precedente release, inasprendola forse in termini di potenza piuttosto che di ferocia. “Septem” è una estenuante cavalcata che si apre con delle angoscianti vocals, che sanno molto di una ritualità ancestrale, che lasciano ben presto il posto al riffing agghiacciante emesso dalla chitarra di Cardinale Italo Martire (responsabile anche delle vocals maligne dell’album). La ritmica si fa brutale più che mai nella seconda parte del brano dove allucinanti blast beat iniziano a piegarci le gambe. Il riffing si fa più malato in “The Seventh Star”, dove anche le vocals appaiono inizialmente più effettate, mentre la batteria picchia come un’invasata macchina da guerra, prima di un finale in cui le chitarre, si rivelano affilate come rasoi e creano raggelanti atmosfere da incubo; eccitante tutta questa malvagità che scola dalle corde del chitarrista. La corroborante devastazione del combo piemontese continua in “Endless Duality”, dove le atmosfere si fanno cosi pesanti e rarefatte da richiamarmi un che degli australiani Disembowelment, prima di esplodere ancora nel fragore della tempesta death metal, che riporta ai maestri polacchi Behemoth. “Septem” non lascia scampo, incalza nervosamente, penetrando lentamente le nostre menti con i suoi suoni diabolici, spaventosi e terrificanti. E ancora oscuri rituali primordiali aprono “I Am the Vortex” (che vede il contributo dei Satanismo Calibro 9, cosi come pure nel finale industriale di “Matrix of Cosmic Light”) che dopo 3 minuti di ataviche litanie, cede il passo di nuovo alla distruzione death perpetrata dai nostri. Annientato dalla furia dei Black Flame, mi appresto ad ascoltare la seconda parte dell’album che con un terzetto annichilente di song, mi dà il colpo di grazia: prima la rabbia di “The Morbid Breed”, che si fa notare per la sua estenuante velocità e un break centrale cadenzato, dove vorrei esaltare l’eccezionale lavoro di M:A Fog dietro le pelli; “Zombies Without Hunger” è forse la traccia più selvaggia dell’album, anche se il finale è a dir poco ipnotico, sinistro e completamente schizoide, una vera bomba. A chiudere questa malefica release, ci pensa la già citata “Matrix of Cosmic Light”, song di un demoniaco e posseduto death metal ultra tecnico (come tutto il lavoro del resto) che ci conferma che quello dei Black Flame si candida ad essere uno dei prodotti più interessanti, in ambito estremo, di tutto il 2011. Oscuri e affascinanti! (Francesco Scarci)

(Behemoth Productions)
Voto: 80

http://www.black-flame.net/

lunedì 9 gennaio 2012

Ecnephias - Inferno

#PER CHI AMA: Black Dark Gothic, Rotting Christ, primi Death SS
Non poteva mancare sulle pagine del Pozzo, il come back discografico degli Ecnephias, band lucana che seguo sin dal loro primo cd, che con questa nuova release, li vede tra l’altro, al loro esordio su Scarlet Records, brava nel sottrarli alla Code 666. Il digipack si presenta inquietante fin dalla lugubre copertina, dove una Madonna (deduco) lacrimante sangue giace su un letto, con in braccio un bimbo (Gesù Cristo?). Poche note di pianoforte introducono “Naasseni” e poi ecco esplodere l’urlo di “A Satana”, dove a colpirmi immediatamente, è la forte connessione musicale con gli ultimi Paradise Lost, con un bel riff di base avvolto da orientaleggianti melodie create dalle tastiere di Sicarius e con il buon Mancan ad alternare il suo growling ad una voce non del tutto pulita, passando tra l’altro con estrema disinvoltura dall’inglese all’italiano (da sottolineare che il ritornello peschi dall’”Inno a Satana” di Giosuè Carducci). La parte finale è poi da stropicciarsi gli occhi, cosi come la successiva “A Stealthy Hand of an Occult Ghost”, dove i nostri riprendono il loro vecchio amore per i Rotting Christ, contaminato però da una verve cibernetica tipica dei The Kovenant, per abbandonarsi ancora una volta ad una chiusura da brividi, affidato ad un basso slappato e a delle fantastiche melodie. Sono entusiasta nel sentire che la band non si sia persa per strada, nonostante i molteplici cambi di line-up, ma abbia anzi continuato la propria evoluzione sonora, sfoderando un’altra prova degna di nota, che spero non lascerete passare inosservata. “Buried in the Dark Abyss” apre con un’altra strofa in italiano (sinceramente, le parti che adoro e che conferiscono quel quid in più alla proposta dei nostri) e poi grandi come sempre a creare atmosfere orrorifiche in stile primi Death SS, grazie a fantastiche keys, intelligenti chitarre, brillanti cavalcate gravide di malinconiche melodie e grazie soprattutto alla voce di Mancan, sempre carica di teatralità, che lo elevano a mio avviso, tra i migliori cantanti in circolazione oggi, grazie al suo spiccato eclettismo. Il disco procede con un altro pezzo interessante, “Fiercer than any Fear”, che dimostra nuovamente quanto i refrain in italiano siano più facili da essere memorizzati e cosi eccomi cantare “Oh Dio del Male della Sorte”. La malinconica “Voices of Dead Souls” (una sorta di semiballad, una bestemmia lo so, perdonatemi ragazzi), rappresenta un altro esempio di quanto i nostri abbiamo enfatizzato maggiormente l’utilizzo della nostra madre lingua a livello di liriche, emerga una spiccata ecletticità nei brani, sempre estremamente vari; ciò che mi esalta rispetto ai passati lavori è, a parte una eccellente cura negli arrangiamenti, anche la componente tecnica del quartetto, talvolta straripante e che esula completamente dal contesto estremo. La fiamma nera brucia ancora nei solchi di questo “Inferno” e non solo per ciò che concerne il titolo: l’anima black continua a permeare di una cupa atmosfera questo magnifico lavoro, che sicuramente ha il pregio di aprire la musica dei nostri a frange decisamente meno estreme del black ma che allo stesso tempo, corre forse il rischio di perdere gli amanti di sonorità più old school. Tuttavia chi segue la band sin dagli esordi, è abituato alle sonorità accattivanti dell’ensemble italico (splendida a tal proposito la sezione ritmica di “In my Black Church” con un profondo basso, quei delicati tocchi di pianoforte, e un sound grondante un groove pazzesco) o alle trovate geniali di Mancan e soci. “Lamia” chiude infine il cd e ancora una volta rimango stupefatto dalla epicità di un brano che starebbe bene nel “Notre Dame de Paris” di Cocciante (va bene, ora ho forse esagerato, ma non vogliatemi male ragazzi, non vuole essere un insulto, ma anzi vorrebbe esaltare il lavoro egregio svolto, che si completa con una bombastica produzione). A chiudere la versione digi ci pensa la bonus track “Chiesa Nera”, che non è altro che la versione in italiano di “In my Black Church”. Che dire ancora? Lasciarsi scappare questo lavoro, sarebbe una delirante follia. Da avere ad ogni costo! (Francesco Scarci)

(Scarlet Records)
Voto: 85