Interviews

lunedì 26 marzo 2012

Veratrum - Sentieri Dimenticati

#PER CHI AMA: Brutal Death/Black dalle tinte epiche, Behemoth, Nile
Non mi sono ancora ripreso dallo spargimento di “Sangue” del demo di debutto, che ecco ritornare a farmi compagnia nelle notti insonni, i bergamaschi Veratrum, freschi freschi con il loro primo full lenght, che si presenta pregno di significati già dal suo simbolico, quanto mai magico, artwork, dove domina una sorta di sacerdote incappucciato, che impugna fra le sue mani delle infuocate sfere blu mentre sullo sfondo trovano posto i simboli delle tre città perdute, menzionate all’interno di questo concept cd: Atlantide, Thule e Agarthi. Si parte subito bene quindi, almeno a livello di contenuti, in quanto io adoro la mitologia, l’archeologia e la storia, tutte cose che ben si amalgameranno all’interno di questo intrigante lavoro. Se poi, quando faccio partire il cd, la produzione cristallina esalta, in modo bombastico, il sound del quartetto lombardo, non posso che essere ancor più felice. Abbandoniamo però queste argomentazioni più futili, per concentrarci sulla musica, vera protagonista di questa seconda uscita targata Veratrum. Ebbene, tralasciando velocemente la scialba intro (l’invito della filosofa ucraina H.P. Blavatsky, ad abbandonare i sensi e avvalersi di mente e spirito, estratto dal “The Voice of Silence” del XIX secolo), mi lancio violentemente all’ascolto di questa penetrante produzione, che fin dal suo trittico di song iniziali, “Uomo”, “Lo Sventramento dei Guardiani della Terra Cava” e “I Trionfi più Grandi”, ci assale con somma prepotenza, ricalcando se vogliamo gli stilemi del demo cd, ossia un death brutale di matrice statunitense, e proprio come gli originali, la tecnica si mantiene sopraffine, con un lavoro sapiente a livello di tutti gli strumenti, per l’intera durata del cd, senza alcuna sbavatura di alcun tipo. Annientato. Ecco l’effetto esplicato sulle mie membra, dall’assetato desiderio di sangue dei quattro valorosi eroi italici. Con “Ars Goetia” invece, inizia a cambiare qualcosa: sebbene il drumming di Sabnok continui a martellare furioso con blast beat che sembrano più riprendere il sonoro dello scontro a fuoco recentemente avvenuto in Francia, dove sono stati spesi 300 proiettili in un minuto, le ritmiche si confermano potenti, ecco che la voce di Haiwas subisce un mutamento palese (al growling cavernoso si affianca infatti, anche un brillante cantato pulito); forse si tratta di quel passo in avanti narrato nelle liriche del cd (tutte rigorosamente in italiano, con traduzione in inglese annessa), quella crescita del viaggiatore, che permetterà al protagonista della storia, di domare gli Spiriti Malvagi. L’esperimento si ripete anche dopo il meraviglioso intermezzo musicale (un altro intermezzo sarà “Orizzonte”) de “I Braceri del Tempio di Thot”, con la epica “Ritorno ad Atlantide”: qui i toni sono decisamente più corali. Una brevissima intro di E.A. Poe, ci introduce alla penultima tappa di questo viaggio: siamo arrivati a “Thule” e la musica dei Veratrum, pur mantenendo indelebile quel marchio di ferocia e brutalità, lascia intravedere qualche sprazzo in più di selvaggia melodia, con un break epico centrale, che non so per quale arcano motivo abbia risuscitato in me il ricordo dei primissimi Primordial, quelli più pagani, capaci di incastrarsi a meraviglia con il sound viscerale dei Nile. L’apertura tastieristica dell’ultima “Agarthi”, sembra invece affidata a Lord Byron e i suoi Bal-Sagoth; ci pensa però la ritmica furibonda dei nostri a farci cancellare immediatamente questo sciocco paragone, perché la song è un chiaro inno di scuola black/death polacco, grondante di groove ma con aguzze chitarre spinte al fulmicotone. Se cercavate qualcosa di interessante, con cui dilettare il vostro periodo pasquale, eccovi accontentati; i Veratrum rappresentano il miglior regalo da scartare all’interno del vostro uovo di Pasqua. Impetuosi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Manes - Under ein Blodraud Maane

#PER CHI AMA: Black psichedelico, Burzum, Thorns
Alla luce dello scioglimento della band, vengo colto dall'improvviso desiderio di rituffarmi nel passato, tra le sonorità oscure del black metal più autentico, riscoprendo questo gioiello nero che tanto mi aveva emozionato e coinvolto quando fu pubblicato qualche anno fa. I Manes muovono i primi passi nell'underground norvegese agli albori degli anni '90 e registrano tre demo-tape nel periodo che va dal '92 al '95: “Maanes Natt”, “Ned I Stillheten” e “Til Kongens Grav de Døde Vandrer”. Dopo aver rilasciato queste tre registrazioni (le prime due sono state successivamente ristampate su mini-cd dalla Unveiling the Wicked, sottoetichetta della Hammerheart), dei Manes cominciano a perdersi le tracce e per un lungo periodo non giunge più alcuna notizia di questo duo, formato inizialmente da Sargatanas e da Cernunnus. L'allontanamento dei Manes dalla scena musicale sembrava dovuto ad alcuni problemi personali, uniti ad una forte repulsione che i due cominciavano a sentire per un ambiente sempre più distante dallo spirito anti-commerciale che aveva animato il black metal nei primi anni. Finalmente nel 1998 esce “Under ein Blodraud Maane”, album che era stato più volte posticipato e che può essere considerato come il vero e proprio debutto discografico della band, anche se il materiale in esso contenuto non è altro che una collezione dei brani migliori apparsi nei precedenti tre demo, riregistrati però con l'avvalsa di una strumentazione più adeguata. I sei brani che compongono l'album rappresentano quanto di meglio il black metal dei primi anni novanta abbia saputo esprimere, affiancandosi alle stesse atmosfere claustrofobiche e tetre delle quali si fecero eccezionali interpreti anche altri act più conosciuti come Morbid, Thorns e Burzum. Il suono dei Manes è terribilmente oscuro, la voce di Sargatanas agghiacciante, la produzione volutamente grezza e la presenza discreta di sinistri arrangiamenti di tastiera non fa altro che rendere più seducente la loro musica, conferendo ad ogni passaggio un tocco funereo. I tempi di drum-machine si assestano su velocità mai troppo elevate, sostenendo un lavoro di chitarre dalla struttura semplice, ma in una continua progressione di armonie, che passa da riff glaciali e taglienti a momenti più epici, fino a raggiungere la melodia allucinante ed ipnotica di assoli che sanno emozionare davvero, come in “Maanes Natt” e in “Uten Liv Ligger Landet Øde”. Dalle note riportate all'interno del booklet, l'intento di Cernunnus e Sargatanas appare chiaro ed esplicito: il duo si aspettava che l'album non venisse associato in nessun modo alle nuove generazioni appartenenti al "black" metal... un desiderio più che legittimo e comprensibile che va rispettato e condiviso ancora oggi, ricordando la prima incarnazione dei Manes come una delle poche entità realmente oscure che hanno fatto parte di questo genere. (Roberto Alba)

(Hammerheart Records)
Voto: 90
 

domenica 25 marzo 2012

Frozen Ocean - Likegyldig Raseri

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum
Se non si conoscesse la storia della “Ildjam Recorded Music” - etichetta norvegese che ruotava intorno alla figura di Vidar Vaaer e che tra il 1991 e il 1997, diede vita ad una serie di collaborazioni con musicisti metal norvegesi creando una nuova costola del black metal che fondeva impulso hardcore, drum patters minimali e lo-fi, screaming tesissimi e sound da headbanger furente, monolotico e ripetitivo all'ossessione - non si potrebbe capire questo cd. I moscoviti Frozen Ocean (in realtà one man band guidata da Vaarwel e già recensiti su queste stesse pagine) hanno all'attivo numerosi lavori e sono dichiarati fan di Burzum. Questo cd ha un tiro notevole e riflette pienamente il genere che l'ha ispirato. Non possiamo dare giudizio sul fatto che su 13 canzoni, ben undici portino praticamente quasi lo stesso pattern di batteria minimale e che più di un brano non abbia ne inizi ne finali, senza assoli e molti senza un cantato. “Likegyldig Raseri” è stato costruito come un concept di nicchia con i canoni ferrei del genere in questione. Tenedo conto che i 13 brani portano tutti lo stesso titolo più la numerazione progressiva, consideriamo quest'opera come un libro occulto, qualcosa da tener custodito in segreto e musica di culto per soli illuminati del black. (Bob Stoner)

(Deleting Soul Records)
Voto: 70
 

giovedì 22 marzo 2012

Stigmhate - The Sun Collapse

#PER CHI AMA: Swedish Black, Marduk, Setherial
Dopo essere stato tramortito in sede live e averli ospitati in trasmissione nel Pozzo dei Dannati, finalmente giunge tra le mie mani il come back discografico (dopo ben sei anni!) dei violentissimi Stigmhate, con un lavoro che è più una sonora legnata nella schiena, e poi più giù all’altezza del cavo popliteo, subito dietro al ginocchio, a piegarci le gambe e a chinare il capo di fronte a cotanta furia e malvagità. Avremo anche aspettato tutto questo tempo per rivedere all’opera l’oscuro quartetto veneto, ma ne è valsa la pensa, perché i nostri sono tornati più tonici e in forma che mai, ben supportati dall’etichetta Bakerteam Records. Ebbene “The Sun Collapse” ci propone nove annichilenti tracce che, prendendo palesemente spunto dalla tradizione black svedese (quella di Marduk e Setherial), ci investe, sin dall’iniziale “Throne of the Eternal Flame” con tutta la rabbia che, verosimilmente l’ensemble ha tenuto represso, nel corso di questi anni. La musica del combo, come dicevamo, è un vertiginoso esempio di black metal, suonato alla velocità della luce, sorretto da una ritmica mostruosa e sontuosa, grazie a delle chitarre affilatissime e ad un drumming potente e chirurgico, capace poi di anestetizzarci in quei rari momenti, in cui un sound mid-tempo, assurge a ruolo di protagonista. Non temete perché questi istanti, utili soprattutto a recuperare un po’ di ossigeno, sono veramente assai sporadici. Dopo il carattere trita ossa delle prime due track, è la melodia di “Gathered of Isolation” a conquistarmi, con quel suo incedere minaccioso, grazie ad un sound a cavallo tra Dissection e Unanimated, insomma altri due mostri sacri della tradizione scandinava, a dimostrare quale eccellente esempio, la scuola italica abbia da offrire in questo filone, un tempo territorio quasi esclusivo delle band svedesi. Taglienti, feroci e tecnici, supportati peraltro da una brillante produzione, gli Stigmhate devono aver venduto l’anima al diavolo, proponendo un sound che più mefistofelico non si può. Probabilmente lo screaming maligno e brutale di Marco accompagnato dall’efferato lavoro alla chitarra di Mike, spingono gli Stigmhate a candidarsi nel minacciare il trono ai godz svedesi. Un’ultima menzione la voglio dedicare ad “Architects of Fate”, song dal forte carattere apocalittico e alla conclusiva “Luce”, song leggermente più pacata, cantata tra l’altro in italiano, che chiude le porte dell’infernale mondo degli Stigmhate. Diabolici! (Francesco Scarci)

(Bakerteam Records)
Voto: 80

Nekromorphine - Senseless Ecstasy

#PER CHI AMA: Black, Ambient
Nekromorphine è una band portoghese molto interessante, dedita ad un black metal d'ambiente e sperimentale. Lo stile è quello del black metal con una visione ampia e teatrale del genere. Una visione estesa alla “sperimentazione fantasy” come la intendono Bal Sagoth, Burzum e Sigh. I brani sono dilatati, psichedelici con stati d'animo eterei e di profonda tristezza, mai estremamente veloci, pieni d'atmosfera e carichi di sinistra emotività. L'uso della tastiera ha un vago rimando alla teatralità dei Moi Dix Mois. “Into the Grimness” sfiora una sorta di shoegaze oscuro, come se i primi Christian Death suonassero musica ambient. La voce è quasi perfetta, astratta, violenta, coinvolgente e oscura, mai banale! “To the End of Mine” è la più “black style”, “Voyage into the Realm of Smoke” è un azzardo nella sua costruzione da “concept”, un viaggio nel suo altalenarsi. Ascoltate il finale e non ditemi che non sentite un retro gusto di bubble gum music, new wave degli 80's e il visual key nipponico (innesto geniale e azzardatissimo per questo genere!). Il tutto andrebbe sofisticato un po' e meglio registrato, l'uso della batteria a volte risulta ancora primitivo e “scarico”. Non aspettatevi da Nekromorphine la solita violentissima black metal band stereotipata, c'è di più! Maligni come una black metal band, sinfonici e d'avanguardia come i Moi Dix Mois e Malice Mizer, teatrali e tetri come se Burzum suonasse una cover del miglior Alice Cooper. Di sicuro non piaceranno a tutti ma il coraggio di questa band potrebbe venir ripagato se sapranno focalizzare ulteriormente le loro idee! (Bob Stoner)

Eluveitie - Slania

#PER CHI AMA: Death Folk, Korpiklaani e Asmegin
Dopo averli visti dal vivo al Pagan Fest con Primordial, Negura Bunget, Solstafir e Heidevolk, non potevo non esimermi dal pubblicare una loro vecchia recensione: gli Eluiveitie, tornano nel 2008 con "Slania", a distanza di 2 anni da “Spirit”, e ritornano con il loro sound rude, ma atmosferico, caratterizzato dall'utilizzo di strumenti tipici della tradizione celtica (l'hurdy gurdy, la cornamusa e i flauti), tradizione alla quale si rifà la band alpina ma non solo, vista la presenza anche di altri strumenti tipicamente svizzeri come lo zugerörgeli (una specie di accordion) e il bodhràn. Più vicini alle sonorità di Korpiklaani e Asmegin, accomunati più per ideologia agli irlandesi Cruachan, l'act d'oltralpe rilascia questo interessante e suggestivo lavoro, addirittura per la Nuclear Blast e il risultato non è affatto male. Se conoscete le band sopraccitate, avrete già capito che si tratta di un death metal dalle tinte folkish, che mantiene la rudezza del genere, ma grazie a preziosi e ariosi arrangiamenti, è capace di spingerci a ritroso nel tempo di mille anni, dove i riti pagani si consumavano quotidianamente. A me questo lavoro piace senza ombra di dubbio, anche se rimango stupito di fronte all'incedere super indiavolato di un pezzo come “Bloodstained Ground” che di folk ha ben poco, se non il finale. Sorprendente è l'aggettivo che si deve dare a un disco di simile fattura, perchè in grado di rievocare con estrema efficacia, le tipiche melodie popolari irlandesi, pur mantenendo intatto l'approccio feroce del death metal: riffing veloci, nervosi e ritmiche sostenute delineano il sound di fondo di “Slania”; tocca poi al magico suono di flauti, cornamuse e violini donare quel quid in più ad un lavoro in grado di spingere la band verso il meritato successo... (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast)

Ekove Efrits - Conceptual Horizon

#PER CHI AMA: Black Ambient Post Rock, Tiamat
Non ho neppure avuto il tempo di riprendermi dall’eccitante lavoro dei francesi Netra, che tra le mie mani sbuca un’altra opera targata Hypnotic Dirge Records, che dimostra quanto oculata sia la scelta delle band del proprio rooster, da parte dell’etichetta canadese, capace di scoprire talenti addirittura nella terra della censura per eccellenza, l’Iran. Questa infatti, l’origine della one man band degli Evoke Efrits, costituita dal solo Saman N (o Count De Efrit). Il sound del nostro eroe persiano potrebbe essere inseribile nel filone suicidal black, ma circoscrivere la proposta musicale a questa sola etichetta, sarebbe limitante, se pensate che l’iniziale “Unmeaning Circle”, che denota subitamente una ricerca sonora lo-fi da parte dell’ensemble persiano, mi ha rammentato le cose più darkeggianti dei Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber”: sound sognante, oscuro, vocals pulite molto vicine a quelle di Johan Edlund, prima che prenda il sopravvento un’epica cavalcata black. Incredibile ma la proposta musicale dell’act di Teheran mi ha già conquistato e mi fa enorme piacere constatare che dopo i Silent Path, un’altra band proveniente dall’antica Persia, popoli le pagine del Pozzo dei Dannati. La seconda “Faceless Moments” mette in mostra la componente più legata all’ambient depressive dell’artista medio orientale, che presenta come punto di riferimento per il solo riffing iniziale, l’onnipresente Burzum, prima di abbandonarsi a deliranti divagazioni lisergiche; le successive vocals campionate di bambini che popolano il brano, mi inducono a percepire una spettrale e angosciante presenza. La temperatura si abbassa, il vapore dell’alito si rende visibile, una sensazione raggelante mi percorre tutto il corpo, un forte desiderio di piangere mi stringe al petto, che diavolo mi prende? Colpa (o meglio, merito, per la sua enorme componente emotiva) va data alla musica del Conte de Efrit, che mette a freno ogni velleità black, per lanciarsi in meravigliose elucubrazioni post rock che nella struggente, epica, magniloquente (e strumentale) “All that We Lost”, trovano la loro massima espressione. Come il titolo lascia presagire “A Celebration for Sorrow” è invece un inno alla tristezza (d’altro canto cosa c’è da essere allegri al giorno d’oggi?). “Conceptual Horizon” potrebbe essere tranquillamente la fotografia del deprimente mondo in cui viviamo e le disperate chitarre che lo popolano (il cui riffing mi ha ricordato quello dei finlandesi Rapture), il potente mezzo che gli Evoke Efrits hanno per contagiarci con il loro profondo senso di inquietudine. Sprazzi di musica orientale si fondono con suoni ambient/cibernetici in “I Just Wish…”, mentre un’altra gemma incastonata in questo quasi capolavoro, è la teatrale e orrorifica “Hills of Ashes”, che cede il passo alla lenta e soffusa “We Can Fly Once More”, un altro omaggio al sound più intimista dei Tiamat e alle tetre composizioni dei Fields of the Nephilim. Dolcemente, attraverso una serie di song strumentali e ambientazioni oniriche, vengo accompagnato e abbandonato tra le braccia di Morfeo. Sorprendenti! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 85

http://www.ekoveefrits.com/

domenica 18 marzo 2012

Duality - Chaos Introspection

#PER CHI AMA: Techno Death, Avantgarde, Ephel Duath, Cynic, Atheist
Sono quasi convinto che nelle Marche ci sia qualche fungo particolare che i ragazzi si mangiano o fumano: dopo la follia cerebrale degli Infernal Poetry, la freschezza alternativa degli Edenshade, ecco giungere tra le mie mani la delirante proposta di questi Duality, nati nel 2003 grazie a Manuel Volpe e Giuseppe Cardamone. Lo so che vi starete chiedendo perché ho etichettato i nostri come deliranti, un attimo, vi tengo un po’ sulle spine. Beh, sapete com’è, quando si preme il tasto play e si viene investiti da una furia death è cosa normale a cui siamo tutti abituati, ma se dopo 30 secondi, il nostro quartetto inizia a fare un po’ quel diavolo che gli pare, uscire completamente dai binari, improvvisare con digressioni jazz schizoidi, prontamente interrotte da inequivocabile furia hardcore, non si può che rimanere attoniti di fronte ad una simile proposta. Poi, con il secondo pezzo, la title track, (in realtà un intermezzo di un minuto), il delirio aumenta: eh si perché la song sembra venir fuori dal flamencato “Elements” degli Atheist, solo che il caldo intreccio violino-chitarra spagnola ci riconduce a sonorità più vicine alla musica classica. Confusi vero, non vi aspettavate una simile proposta? Beh io lo sono ancor di più, soprattutto quando con “Intuition of Disorder” ho la pretesa di intuire, che i nostri vogliano assaltare la diligenza con la loro furia death metal, mi sbagliavo; di nuovo sprazzi di insania mentale prendono il sopravvento e cosi quello che attacca le mie orecchie come un mefitico parassita, è un sound che intreccia influenze derivanti dai Cynic, con quelle nostrane degli Ephel Duath. “Natural Seizure Syndrome” parte ancora una volta furibonda, con le chitarre del duo Diego/Giuseppe costantemente arroganti ed imprevedibili, per non parlare del basso slappato di Tiziano Paolini che sembra volerci condurre in territori funky; non temete però, perché poi le urla filtrate di Giuseppe, qui assai vicino al vocalist degli Infernal Poetry, ci tengono solo per qualche secondo con i piedi per terra, prima che i nostri ripartano per farneticanti e psichedeliche esplorazioni in suoni assai avanguardistici. Da paura! Da paura anche la conclusiva e arrembante “Hybrid Regression” che dichiara palesemente che nuovi fenomeni stanno crescendo sul suolo italico. E ora voglio il full lenght!! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

Domina Noctis - Second Rose

#PER CHI AMA: Symphonic Gothic Metal
Italianissimi, attivi dal 2001, i Domina Noctis possono essere l'alternativa più electro ai nostrani Lacuna Coil: la voce di Edera non ha nulla da invidiare a quella di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. “Second Rose” è il loro secondo lavoro, dopo “Nocturnalight” del 2005: un album energico, dinamico, come si può sentire fin da subito nella prima canzone, “Electric Dragonfly”, song dotata di suoni elettronici, ma anche di grinta e vitalità, grazie anche al ritmo veloce e alla voce dolce e grintosa al tempo stesso. In “Untold” l'animo si placa un poco per diventare più cupo, ma senza perdere comunque la sua verve: la canzone si presenta malinconica, dolce e profonda, piacevole all'ascolto, con il ritmo che ti penetra nella mente per cui alla fine non è difficile non mettersi a canticchiare il motivetto. “Into Hades” si avvale parecchio delle tastiere, mentre Asher alla chitarra, Azog al basso e Niko alla batteria accompagnano la dolcezza della voce femminile, inducendo comunque un headbanging sfrenato: se il loro scopo era quello di colpire, certamente hanno colto nel segno. “Because the Night” è la classica cover del pezzo di Patty Smith che, a mio avviso, è veramente azzeccata: questa è una delle cover meglio riuscite, da cantare e magari mettersi pure a ballare. Arriva il turno di “Lamia” e la voce viene portata ad una tonalità più alta del solito, senza stonature: questa è una delle tracce più semplici e leggere dell'album, ideale magari per chi vuole avvicinarsi al metal senza rimanere troppo schockato. “Sisters in Melancholy” riprende il sound iniziale, senza cambiarvi una virgola: verso metà le cose si fanno più toste e il sound acquisisce più aggressività, per terminare con un duetto batteria/chitarra. “Broken Flowers” ricalca il sound di “Lamia”, ma da metà in poi il ritmo rallenta e si fa più grave, mentre la voce diventa quasi sussurrata e il basso l'accompagna; Ruyen, alle tastiere, prende il sopravvento con un assolo dal gusto retrò. “Exile” si apre con un tono solenne: il cantato è pacifico, come del resto tutto il ritmo del brano; nella seconda metà del pezzo ecco un vibrante assolo di chitarra; il brano estranea, per un attimo fa scordare ciò che vi è attorno e porta lontano la mente, verso lande inesplorate. “The Mask” si avvale di sonorità orchestrali per dare un impronta più grandiosa al brano: con intervalli di chitarra acustica accompagnata da pianoforte, tutta la traccia diventa mesta, flemmatica, ma straordinaria, con la voce che viene portata ai massimi livelli giocando su tonalità sia acute che gravi: probabilmente un esame per vedere fino a che punto la voce può arrivare. Come ultima traccia vi è un'altra cover, più precisamente del brano di Sonny Bono “Bang Bang”: nonostante le molte cover, questa (esattamente come l'altra) è particolarmente riuscita, con la voce di Eden molto suadente e magica (decisamente migliore di quella languida cantata da Carla Bruni in uno spot automobilistico): un'ottima scelta per chiudere un album ricco di giochi vocali, di sensazioni ed emozioni che variano in base al ritmo variabile che ogni canzone presenta. In chiusura, ammetto che è stata una sorpresa sentire con quanto ardore questa band abbia registrato l'album: ha in sé una potenza che li porterà lontano, sicuramente da tenere d'occhio le loro prossime creazioni (magari avvicinandosi al symphonic metal). (Samantha Pigozzo)

(Black Fading)
Voto: 70
 

Mors Syphilitica - Feather and Fate

#PER CHI AMA: Gothic, Darkwave
Andiamo parecchio indietro nel tempo, 2001 e al terzo lavoro per gli americani Mors Syphilitica, terzo progetto di Lisa ed Eric Hammer, già conosciuti come Requiem in White e The Order of N.C.S. Dopo l’omonimo cd d'esordio ed il successivo “Primrose”, i coniugi Hammer ci propongono questo “Feather and Fate” che, in linea generale, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già fatto in precedenza, ma che si presenta come un album carico di tutta la bellezza malinconica tipica dei Mors Syphilitica ed ha forse un tocco ancor più delicato e seducente. La materia sonora sulla quale Lisa poggia con grazia la sua finissima voce è un insieme di emozioni che a tratti sorreggono le parti vocali e a tratti reclamano, invece, uno spazio di primo piano, fondendosi con la voce e creando un tutt’uno morbido e armonioso. Durante l’ascolto di “Feather and Fate” arrivo quasi a percepire visivamente la musica ed essa appare ai miei occhi come una materia malleabile in continuo movimento… ma credo che la musica dei Mors Syphilitica in fondo sia proprio questo, cioè un insieme di note in costante mutamento che si muovono sinuosamente negli angoli più bui dell’anima dando vita a sensazioni intense, a volte così fragili da sembrare oniriche. In un album di questo tipo, nel quale le canzoni formano quasi un tutt'uno inscindibile tanto sono ben amalgamate fra loro, è difficile sostenere che ve ne sia qualcuna che emerge sulle altre, ma non posso mancare di affermare che “How Long?” e “Only a Whirlwind” mi hanno colpito, turbandomi profondamente, forse per la maggiore carica emotiva che esse sprigionano. In realtà tutte le canzoni sono intrise della bellezza sensuale e del fascino triste che Lisa ed Eric riescono a conferire loro ed è questo ciò che rende i loro lavori unici. (Laura Dentico)

(Projekt)
Voto: 80
 

Lex Decimate - Seas of Endless

#PER CHI AMA: Darkwave, Elettronica, Ambient, Gothic
Lex Decimate. Ovvero "distruzione della legge". Secondo quanto riportano le note di copertina, il significato che Lee Duis attribuisce al monicker del suo progetto è collegato al rifiuto delle imposizioni sociali e al tentativo di liberarsi da ogni dogma che possa minare la nostra identità. Attraverso la sua musica, Lex Decimate vuole condurci in una dimensione lontana da tali restrizioni, un posto in cui nessuno soffochi la nostra esistenza stabilendo quali persone noi dovremmo essere o quali dovremmo amare. Se questo è l'intento dell'artista americano, diversa è invece la natura del concept affrontato in “Seas of Endless”, un album incentrato sulla descrizione di un mondo distrutto in cui solo una parte esigua del genere umano è sopravvissuta. I "Mari dell'Infinito" non sono altro che le emozioni dei superstiti, la loro rabbia, le lacrime del ricordo unite ai sogni di un nuovo mondo che, timidamente, tenta la strada della ricostruzione. Riguardo l'aspetto prettamente musicale, “Seas of Endless” si articola in undici brani caratterizzati da una discreta varietà stilistica, anche se l'ambito in cui si muove Lex Decimate rimane indubbiamente connesso alla musica elettronica e alle sue varianti più "ambientali". Attraverso le algide tessiture dei sintetizzatori e del piano, l'uso di beat felpati, l'alternanza tra una base ritmica morbida e la battuta controtempo negli episodi meno pacati dell'album, Lee Duis è riuscito a creare veri e propri soundscape sonori, dei paesaggi di assoluta desolazione che ben si sposano al concept lirico dei testi. A questo si unisce un'impostazione vocale a volte greve, a volte melodica, altre volte sussurrata e criptica. In ogni caso, una prova canora sempre perfettamente intonata con l'umore oscuro e drammatico che permea ogni singolo brano. Non tutta l'opera vive di momenti entusiasmanti, ma “Seas of Endless”, “One Breath Gone” e “Find Myself”, sono ottimi esempi di come si possa suonare elettronica in modo intelligente e professionale, senza l'appoggio di una grossa etichetta, senza riciclare i facili cliché che le mode del momento impongono e, soprattutto, affidandosi agli unici ingredienti necessari alla buona riuscita di un prodotto: talento, passione e buon gusto. (Roberto Alba)

(Silencer Records)
Voto: 75

http://www.lexdecimate.com/

Umbra Noctis - Il Primo Volo

#PER CHI AMA: Black/Death Old School, Epic, Mahyem, Ancient
Cresce si, continua a crescere costantemente ed inesorabilmente, bisogna solo avere un pizzico di fiducia per una scena che, nonostante stia incontrando difficoltà di ogni tipo, ha la forza e la voglia di farsi largo. Sto ovviamente parlando dell’underground italico, luogo fecondo dove pian piano, stanno cercando di ritagliarsi il loro spazio entità oscure, provenienti dal sempre più florido sottobosco nazionale e quest’oggi, vede finalmente la luce, il primo full lenght (dopo tre demo, un EP e uno split) dei bresciani/mantovani Umbra Noctis, che prendono finalmente il tanto agognato volo. Ovviamente il titolo dell’album del quartetto lombardo si presta facilmente a simili battute; ora li attendo in studio nel Pozzo dei Dannati, per saggiare e discutere di persona del loro black old school. La musica dell’act nostrano è infatti un apparentemente tirato esempio di black metal efferato e senza compromessi, che fin dall’iniziale “In Superficie” (aperto tuttavia da una melodica parte arpeggiata), mostra il lato selvaggio dell’ensemble lombardo, contraddistinto dalle classiche chitarre ringhianti di matrice nordica, accompagnate da uno screaming a dir poco spietato. Il sound tagliente espresso dagli Umbra Noctis, si trasmette anche nella successiva “Solo”, ma è la terza song, “Oltre la Steppa”, a colpirmi maggiormente: il brano si apre (e chiuderà) infatti, con una sorta di rito liturgico, che lascia ben presto spazio ad un suono dalla vena punkeggiante, in stile Impaled Nazarene, che nella sua interessante evoluzione, trova anche il modo di assumere un connotato epico, a la Primordial; sorprendente ed eletta nello stesso momento del primo ascolto, la mia traccia preferita del cd. L’album procede violentemente su questo binario di crudeltà, non proponendo nulla di innovativo, sia chiaro, se non alcuni accenti a livello degli strumenti: un enfasi del basso nella parte finale della spietata “L’Attesa”, una criptica parte acustica posta all’inizio di “Rovine”, che vede tra l’altro l’utilizzo di un accenno di clean vocals, nella sua parte centrale. La rabbia, l’odio e l’aggressività della band si traducono in un riffing caustico, che trova inevitabilmente la sua fonte di ispirazione nei mostri sacri nordici, norvegesi, svedesi o finlandesi che siano. È la Scandinavia in toto quindi, a suggerire alla giovane band del bel paese, come muoversi in un territorio particolarmente minato e già ampiamente esplorato: il black metal canonico norvegese, quello di Mayhem o Ancient, si mischia alla velocità di quello svedese, prima di venire contaminato dall’epicità dei Bathory e dai suoni “grezzi” dei già citati pazzi finlandesi Impaled Nazarene. Qual è il surplus dato dai nostri alla loro proposta? Beh, in primis, il cantato in lingua madre, esperimento vincente già fatto recentemente anche dai Frangar e dai Veratrum (recensiti su queste stesse pagine); segue poi un accenno alle liriche, di stampo fantasy e la capacità di miscelare un malvagio black metal ad un corrosivo death. Per il resto c’è ovviamente ancora molto da lavorare, per poter ricercare una propria definita personalità, magari puntando su un più articolato songwriting e su una più intensa dimensione epico/rituale, che conferirebbe alla musica degli Umbra Noctis, una maggior freschezza ed interesse. Per il momento va bene cosi, ma i margini di miglioramento potrebbero essere ancora assai notevoli! (Francesco Scarci)

(Novecento Produzioni)
Voto: 75

Netra - Mélancolie Urbaine

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Trip Hop, Sleepless
Sapete quanto io ami la sperimentazione, potrete pertanto capire il mio entusiasmo di fronte a questa affascinante produzione in casa Hypnotic Dirge Records. Ebbene, i Netra sono una one man band proveniente dalla Bretagna, capitanata da Mr. Netra, il factotum della situazione. La proposta musicale? Beh, sicuramente se non ci fossero state delle urla disumane a popolare tutti i sognanti pezzi inclusi in quest’album, avrei pensato che tra le mani, mi fosse erroneamente giunto un lavoro dei Portishead o dei Massive Attack. Si, avete letto bene, il letto su cui poggia la musica del losco act transalpino è infatti del puro trip hop. Che delizia per il mio esigente palato, che ora non riesce già più a farne a meno e soprattutto auspica che qualcosa possa presto bollire in pentola, dal momento che la storia contenuta in “Mélancolie Urbaine”, risale addirittura all’estate 2006, pur essendo stata rilasciata soltanto nel 2010. Sette splendidi e ispiratissimi pezzi, che ispirandosi alla oniricità del genere di Bristol (la città inglese che diede i natali ai Massive Attack), si disciolgono in liquidi passaggi che affondano le proprie radici in passaggi dub, psichedelia e post rock. Il sound dei Netra è lento e oppressivo sin dall’iniziale “City Lights” nella cui raffinatezza, sento riecheggiare inevitabilmente anche gli Ulver del monumentale “Perdition City”, anche se poi lo screaming (assai raro a dire il vero) del vocalist, ci riporta ad un più autolesionista suicidal black (unico residuo rimasto, nel sound introspettivo dell’act francese, del genere estremo suddetto). La musica di “Mélancolie Urbaine” è decisamente oscura, fatta di atmosfere retrò, passaggi eterei, divagazioni elettroniche e frangenti avanguardistici. L’eco dei Massive Attack, anche nel cantato ritorna tangibile in “Terrain Vague”, mentre la malinconia che traspira l’intero lavoro mi ha ricordato per certi versi la proposta di due band sciolte, gli svizzeri Sadness e gli Israeliani Sleepless, anche se il sound era decisamente più metallico. L’elegante ricerca musicale realizzata, le influenze jazz-blues, il calore che pervade l’intera composizione, la struggente emotività che impregna tutti i 42 minuti di quest’intrigante opera, l’alone shoegaze che aleggia intorno a tutte le song ivi contenute, ci consegnano un lavoro pregno di contenuti non solo musicali. Bella scoperta ho fatto oggi; con i Netra ho capito che c’è ancora speranza che il metal non venga risucchiato dal lento processo di involuzione a cui sta andando incontro da tempo. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 85

http://www.facebook.com/pages/netra/115486751822328

venerdì 16 marzo 2012

Rising Dark - Apocalyptic

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Exodus
A me, questi quattro ravennati, piacciono. La band si forma del 2007, si da moltissimo da fare dal vivo e, nel 2011, dopo aver firmato per la SG Records, Michael Crimson (Voce e chitarra ritmica), Stanley Bleese (Chitarra solista), Freddy Blade (Basso e voce), Balzael (Batteria), danno alle stampe questo loro primo full lenght. L’influenza della Bay Arena si fa sentire, così come quella di gruppi come Exodus, tuttavia niente di preoccupante alle mie orecchie. Non si tratta di un lavoro puramente thrash; molti piacevoli innesti death spingono verso una direzione più violenta e arcigna, da me molto apprezzata. Difficile mantenere le dosi giuste con una tale scelta compositiva, infatti le tracce non sono sempre omogenee stilisticamente e in un album del genere rischia di sembrare un difetto. Niente di grave, ci mancherebbe, sono giovani e, d’altra parte, non si può non percepire il loro carattere e la loro passione infusi in questo primo LP. Sette canzoni complesse, con molte idee, varie e poco noiose. Un disco molto ben prodotto. Volete provare? Inserite il cd e premete “play”: si inizia con “Apocalyptic” un classico, ma sufficientemente funzionale, intro strumentale. Poi l’arrembante, tirata “Armageddon” ci fa capire con chi abbiamo a che fare, e ci toglie un po‘ di pensieri negativi (del tipo: ma non saranno flosci?). Quindi una song un po’ più calma, “This is War”. Si passa a “The Bofoid”, forse la traccia meno riuscita, potabile per carità, ma non a livello delle altre. Ecco, qui si nota in maniera decisa quella discontinuità stilistica di cui sopra. Più oscura, ma comunque travolgente “Yog Sothoth”. “Your Blood is on My Hands”, con una notevole introduzione di chitarra, è invece probabilmente la migliore: complessa, impetuosa, eseguita assai bene. La conclusiva “Phoenix” è un lentone che potrebbe non piacere a tutti. Personalmente non la trovo male; le tastiere e il piano aumentano l’effetto di una melodia particolarmente eterea, il che ne fa scaturire un certo contrasto con le tracce precedenti che mi intriga, non poco. Certo, proprio questo stacco potrebbe farla sembrare fuori luogo ad alcuni (de gustibus...), tuttavia questo pezzo mette in luce la capacità dei nostri di sapersi destreggiare con qualcosa anche di diverso dal thrash. Secondo me questi ragazzi ci sanno fare: solidi tecnicamente hanno nelle chitarre e nella parte ritmica il loro punto di forza; forse ancora un po’ acerbo il vocalist in alcune situazioni, si riconosce però una sua certa versatilità (ad esempio nella ballad “Phoenix”). Un buon album d’esordio, con buone promesse che possono essere mantenute se non con un lavoro di miglioramento compositivo e ovviamente con la ricerca di uno stile più peculiare. (Alberto Merlotti)

(SG Records)
Voto: 75
 

Toundra - II

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, God is an Astronaut, Mogway
I Toundra sono un quartetto post rock strumentale spagnolo, di Madrid per l’esattezza. L'avreste mai detto dal nome? Personalmente no, ma forse sto divagando e/o impazzendo, quindi andiamo per ordine. Il loro primo cd (“I”) è stato pubblicato nel 2008 su CD/vinile e la stessa sorte è toccata a questo “II”, uscito nel 2011. Sette sono i pezzi inclusi nel dischetto con l'artwork che risulta ben curato, anche se minimalista nel suo insieme. Il quartetto è caratterizzato da sonorità post-rock, decisamente ben bilanciate con suoni più classic-rock, percussioni ed archi che conferiscono un’eleganza non comune alle composizioni dei nostri amigos iberici. Vero che il binomio chitarra distorta-violino esiste da anni, ma dosarlo al punto giusto non è cosa semplice, si rischia di strafare oppure di creare degli sterili arrangiamenti, qui siamo nel giusto mezzo. Parlando a livello generale, la struttura dei pezzi è simile a quella dei God is an Astronaut e affini; effettivamente il genere non lascia grandi spazi alla creatività se si vuole mantenere lo standard inalterato. Quasi tutti i pezzi hanno una sezione più calma e mai cupa che poi raggiunge un apice, caratterizzato da maggior vigore strumentale. Queste sfumature permettono ai Toundra di avere una sorta di marchio di fabbrica, anche se ritengo che ci voglia ben altro per emergere dal marasma di band che popolano ora come ora il panorama post rock strumentale. Personalmente in una ipotetica compilation di gruppi dediti a questo genere, farei molta fatica a indovinarne una buona parte, data la scarsa capacità ad emergere con una proposta originale. Tuttavia, visto comunque l'apprezzamento da parte del pubblico e gli ottimi risultati che il quartetto sta portando a casa, non voglio certo fare la predica ai bravi Toundra, che però dovrebbero dimostrare una maggior maturità nel prossimo lavoro. Dite che si intitolerà "III"? (Michele Montanari)

(Aloud Music)
Voto: 70

domenica 11 marzo 2012

Smaxone - Regression

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali, Faith No More, Devin Townsend
Ecco un disco fresco che sconvolse la mia estate del 2005... Fu un bel colpo in casa Scarlet, l’aver messo sotto contratto questa band, side project di Michael Bøgballe (vocals) e Brian "Brylle" Rasmussen (batteria) dei Mnemic e Casper Skafte (chitarra) e Claus Lillelund (vocals) degli Elopa. Gli Smaxone si sono formati sul finire del 2003, grazie agli artisti sopraccitati, anche se tutte le tracks sono state scritte e arrangiate da Skafte, mentre gli altri musicisti si sono avvicinati alla musica degli Smaxone a livelli successivi. Beh, immagino che sarete curiosi, del perchè la proposta del combo danese mi fece tanto scalpitare? Allora fate una cosa, chiudetevi nella vostra stanza, spegnete le luci e ascoltate assolutamente il disco nelle cuffie per poter meglio apprezzare i minimi particolari di “Regression”. Questo è un album capace di miscelare la genialità dei Faith No More, con la follia di Devin Townsend e la rabbia cibernetica dei Fear Factory. Oltre ad avere una produzione esagerata ad incrementare l’impatto sonoro, quest’album ci mostra le doti eccezionali come clean vocalist di Claus, abile ad amalgamarsi con il cantato più ruvido di Michael, il tutto contribuisce a creare un’estrema varietà nel sound della band. Ma poi è la musica dei nostri a regalarci momenti emozionanti; non posso citarvi un brano in particolare perchè in complesso l’intero lavoro mi ha esaltato per la freschezza di idee apportate e per l’estrema semplicità con la quale riesce ad incollare l’ascoltatore alla poltrona. Rispetto ai gruppi visti sopra, gli Smaxone hanno sicuramente un approccio più soft-commerciale, ma per una volta lasciamo stare queste piccolezze perchè, quando un album vi garantisco che è valido lo è anche se a cantare ci fosse Ricky Martin (ok, ora ho un po’ esagerato). Quello che voglio dire è che se amate Devin Townsend, i Fear Factory, i FNM o il metal in generale in tutte le sue sfaccettature, dovete andare a pescare questo gioiello: riff metal, strabilianti atmosfere, samples elettronici, bellissime vocals rendono “Regression” uno dei lavori più interessanti degli ultimi anni!! (Francesco Scarci)

(Scarlet Records)
Voto: 90
 

Saltatio Mortis - Des Konigs Henker

#PER CHI AMA: Folk, Gothic, In Extremo
I Saltatio Mortis sono conosciuti per suonare musica “gothic medievaleggiante” con strumenti storici: cornamusa, flauti e corni fanno infatti, parte integrante dell’organico strumentale della band, andandosi a miscelare egregiamente con la componente elettrica. L’attitudine del gruppo tedesco è assai vicino a quello di band conterranee quali In Extremo e Subway To Sally e come accade per queste band, il cantato in tedesco paga un fortissimo dazio all’esito finale dell’album, a chi, come me, fatica a digerire la lingua germanica. La musica del combo tedesco non è affatto male, con quelle sue ritmiche heavy metal, su cui s’inseriscono interessanti parti elettroniche e i già citati strumenti popolari, di cui però alla fine se ne fa largo uso. Tra i lati negativi, c’è da rilevare una certa ripetitività nella struttura dei brani: strofa, coro, strofa, coro e bridge con l’inserto persistente e alla fine stancante della cornamusa, il tutto condito ahimé, dal classico orrido cantato in lingua madre, a dare la mazzata ad un disco che se non fosse per le liriche in tedesco, si farebbe tranquillamente ascoltare e apprezzare. I Saltatio Mortis sono, infatti, abili nel trasmetterci le loro impressioni di un tempo lontano ormai dimenticato, e bravi a fondere queste suggestioni con i suoni moderni, le schegge elettronico-futuristiche, i breaks malinconici e i momenti trascinanti vicini al pop rock. Nonostante le critiche, “Des Konigs Henker” è un album che merita sicuramente il vostro ascolto, se volete calarvi in una dimensione popolare d’altri tempi... (Francesco Scarci)

(Napalm Records)
Voto: 65

Frailty - Melpomene

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e ultimi My Dying Bride
La band lettone dei Frailty fa parte dei nostri fedelissimi compagni d’avventura del Pozzo dei Dannati. Abbiamo recensito il primo cd, l’Ep omonimo, ed ora è la volta di “Melpomene”, che contiene le tracce mai ufficialmente pubblicate di “Silence is Everything”, Ep del 2010, oltre a cinque nuove song. Mi arriva direttamente dall’etichetta ucraina, Arx Productions, questo secondo lavoro e devo ammettere che all’ascolto della prima traccia mi ha istantaneamente disorientato; dove diavolo è finito infatti, il death doom atmosferico dei nostri? Mi è subito venuto in mente il cambio stilistico che i My Dying Bride fecero ai tempi di “The Dreadful Hours”, dove ampio spazio fu lasciato anche a feroci galoppate in territori black metal. Se non fosse per l’intermezzo acustico, posto a metà di “Wendigo”, penserei che il sestetto baltico possa aver cambiato decisamente genere, inasprendo di molto il proprio sound. Ci pensa però la successiva “Cold Sky” a ripristinare il tutto e a restituirmi la band che ho apprezzato più che altro, per l’incedere doomeggiante e pregno di vibrazioni malinconiche. Come scrissi per il precedente Ep, la musica dei nostri è in grado di solleticare il mio palato e i miei sensi, per quella sua innata capacità di riportarmi ai fasti del genere con l’esordio degli Anathema, quelli più oscuri e decadenti e i nostri ci riescono nuovamente con questa nuova release. La musica dei Frailty non è cambiata poi di molto e la terza traccia, seppur datata ormai 2010, ci ammorba con 14 minuti di lenti e pesanti riff di chitarra, accompagnati come sempre dai delicati e immancabili tocchi di pianoforte e dai vocalizzi animaleschi di Martins. “Underwater” è un bell’esempio di death doom ritmato, in cui trovano posto pletorici riffoni di chitarra, carichi di quell’eleganza mista a disperazione, che rappresentano un po’ il marchio di fabbrica dell’ensemble della piccola repubblica baltica. “Onegin’s Death” è un arpeggiato pezzo strumentale, in cui fa la sua comparsa anche lo spettrale suono di un violino nel bel mezzo di un temporale; la traccia fa da preludio ai quasi quindici minuti di “The Doomed Halls of Damnation”, che ci fanno sprofondare nuovamente in un minaccioso e tetro funeral doom, foriero di dolore, sofferenza e morte, soprattutto quando il sound rallenta paurosamente in versione super slow motion. Il nodo strozzatosi in mezzo al petto, viene subito spazzato via da “The Eternal Emerald”, song decisamente più andante, che vede anche le clean vocals di Edmunds, avvicendarsi a quelle di Martins e mostrare come le nuove composizioni siano decisamente meno claustrofobiche della precedente produzione targata Frailty. Non so se questo sia un bene o un male, dal momento che ho imparato ad apprezzare la band per quei suoni miscelanti angoscia ed eleganza, lenti, ossessivi e caratterizzati da pesanti ritmiche agonizzanti. Ecco, diciamo che li preferisco maggiormente in versione slow piuttosto che mid-tempo, anche se non posso negare che “Thundering Heights” mostri in chiusura un fantastico assolo che contraddice ogni mia parola. A chiudere ci pensa la strumentale, orientaleggiante e davvero notevole, “The Cemetary of Colossus”, che conferma quanto i Frailty si possano candidare ad essere tra gli alfieri del death doom in Europa, ma al contempo possano decisamente aprirsi ad altre sonorità più epiche e sperimentali. Da tenere accuratamente e obbligatoriamente sotto la lente di ingrandimento. (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 75
 

Klimt 1918 - Undressed Momento

#PER CHI AMA: Dark Gothic, Novembre
Cosa dire di questo album se non che si tratta di un lavoro perfetto! Potrà sembrare sbrigativo liquidare in questo modo “Undressed Momento”, eppure vi assicuro che l'album mi lasciò di stucco e fatico quasi a trovare le parole per descriverlo, tante sono le emozioni che mi travolsero durante l'ascolto. Avevo conosciuto i Klimt 1918 un paio di anni prima di questo lavoro (era il 2001!) con il loro demo “Secession Makes Post-Modern Music” e già in quell'occasione penso si intravedessero delle doti non comuni nel gruppo romano, ma è proprio con “Undressed Momento” che il quartetto dimostra tutta la sua bravura. La band infatti non si è limitata a seguire la lezione impartita dai propri gruppi ispiratori ed ha rielaborato certe influenze metal in una collezione di ottimi brani dallo stile personale e dai contorni definiti. Gli echi di Edge of Sanity e Novembre si fanno ancora sentire, ma questa volta rimangono latenti nel songwriting e si accompagnano a sfumature pop prossime a Tears for Fears e The Police. Ciò che vi colpirà immediatamente appena verrete a contatto con “Undressed Momento” è la maturità della proposta musicale, cosa che personalmente trovo stupefacente se ripenso che il gruppo era al suo debutto. Quella perfezione compositiva che una band come i Novembre ha raggiunto attraverso quattro album pare infatti sia già una ben affermata qualità dei Klimt 1918. Cito i Novembre perché le due band hanno più di un punto che le accomuna, senza poi dimenticare che proprio Giuseppe Orlando e Massimiliano Pagliuso appaiono come guest-musician nel cd. Mentre la musica dei Klimt 1918 si diffonde nella stanza, posso allora riconoscere le stesse deliziose vibrazioni che album come “Wish I could dream it Again” e “Arte Novecento” mi avevano trasmesso qualche anno prima. Parlo di melodie fragili e carezzevoli che, accompagnate dalla bella voce di Marco Soellner, descrivono gesti di intima delicatezza, parlo di chitarre vibranti, come morbidi cerchi concentrici che si propagano lentamente nell'acqua. Tutto in questo album porta ad uno stato di immobile attesa e di attonita contemplazione. Sono attimi interminabili, interrotti solamente dai sussulti di un cuore inquieto. Tra le sagome incerte di un dipinto scorgo i guizzi vitali della passione, gli inganni di un sentimento acerbo che si dissolve e la musica di “Undressed Momento” accompagna queste immagini prima con dolcezza... poi con veemenza. Rimango estasiato davanti alla sorprendente facilità con cui i Klimt 1918 sanno emozionare e lascio che i colori tenui della loro musica si diffondano attorno a me, a confortarmi nelle mie notti più solitarie. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 90

Debauchery - Continue to Kill

# PER CHI AMA: Brutal Death, Six Feet Under, Suffocation, Obituary
Non sono mai stato un grande fan della band teutonica, che a distanza di un anno dal rilascio del disco death'n roll, “Back in Blood” (che scimmiottava non poco gli AC/DC), propone il proprio quinto album, dal contenuto decisamente più brutal death splatter gore. Abbandonati i modernismi grooveggianti del precedente lavoro, “Continue to Kill” non fa altro che colpire, tramortire e continuare ad uccidere il povero ascoltatore, con il suo sound veloce, compatto, ma anche melodico. A mio avviso, il combo tedesco fa un passo in avanti rispetto al passato, abbandonando quell'eccletismo di fondo (se escludiamo le song 5, 13 e 14 che invece mantengono come matrice di fondo l'hard rock), che magari disturbava non poco, i puritsti del genere. Le tracce, come una contraerea nel cielo di Baghdad, scatenano una furia distruttiva, non sfociando però mai nel grind o nel chaos più totale. Da sottolineare la presenza della ferale "Angel of Death", cover degli Slayer, qui in versione rivista in chiave Debauchery. Gli altri brani viaggiano invece su mid tempos più ragionati e controllati, risultando però alla fine noiose. Le ritmiche sono violente con gli immancabili blast beat a dettare i tempi della mitragliatrice ritmica; un riffings affilato, con le growling vocals e lo screaming raro del vocalist, completano un lavoro, che ha il solo difetto di risultare al termine del suo ascolto, un po' troppo insipido e avaro di emozioni... (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 65