Interviews

domenica 26 febbraio 2012

Northwail - Cold Season

#PER CHI AMA: Black Death Progressive, Lux Occulta, Behemoth, Akercocke
Storicamente la Polonia, musicalmente parlando, è sempre stata caratterizzata da band che hanno saputo mischiare una certa brutalità sonora, guidata da eccellenti linee melodiche di chitarra, con ambientazioni atmosferiche; penso ad act quali Behemoth, Vader, Vesania o Decapitated, tanto per citare i nomi più famosi, band da sempre sulla cresta dell’onda per la coerenza che li contraddistingue. L’underground pullula anche di altre eccezionali realtà e i Northwail sono una grande scoperta per il sottoscritto, in questa ottica. Dirompenti già dalla prima “Where God Ends…”, song che ci sbatte fin da subito in faccia la genialità di questo quartetto, che ha saputo conquistarmi non solo a livello di musicalità assai travolgente, ma anche per il messaggio di cui si fanno portatori e che può essere semplicemente riassunto con la frase posta in fondo al booklet, relativa alla fondamentale differenza tra la religione, basata sull’autorità e la scienza basata invece sull’osservazione e la ragione e come tale, in grado di vincere perché funzionante. Ma torniamo ad analizzare i nostri da un punto di vista meramente musicale, perché l’attacco frontale a cui si viene sottoposti con la opening track, è da lasciare basiti: chitarre funamboliche si rincorrono lungo i nove minuti e mezzo della sua durata, mentre la ritmica tonante, martella come un ossesso. Mi vengono in mente i Mithras o gli Akercocke e la loro fantastica imprevedibilità, quando in mezzo a tutto questo marasma sonoro, ecco un improvviso break acustico, a cui segue un ennesimo uragano di follia. Ed è ecco venire a galla lo spettro ormai scomparso una decina di anni fa dei connazionali ed emblematici quanto mai schizofrenici, Lux Occulta, miscelati a qualcosina anche dei nostri Ephel Duath, in un risultato che ha del miracoloso. Sono rapito, vi si sembrerà strano che un cosi selvaggio connubio tra black e death, che si ripeterà anche nelle successive tracce, possa conquistare alla grande il buon vecchio Franz. Ma dovreste ascoltare con le vostre orecchie quello che questi scalmanati polacchi hanno partorito. Cinque tracce di magniloquente e dinamitardo black death dalle tinte progressive. Si prosegue con “Faith and Hope are Fodder for the Blind” e il risultato non cambia poi tanto: l’avvio è un po’ più canonico, ma si sente che la pentola è li li per bollire e la furia minacciosa pronta ad esplodere e un flusso di fuoco a innalzarsi verso il cielo, come nei film. Ed eccola, veemente e maligna, la fiamma bruciare il cielo e chiazzarlo di rosso sangue. Il ritmo è nevrotico, e si traduce in un riffing sincopato in stile Infernal Poetry, con cambi di tempo repentini e le growling vocals di Morph ad accompagnare egregiamente il tutto. Il cielo “sanguinolento” tende ad assumere sfumature più plumbee, quando nel mezzo del brano, l’atmosfera si incupisce e nuvole cariche di pioggia appaiono lontane. Ragazzi miei, che tecnica, che precisione chirurgica, che mazzate nei denti, i Northwail hanno rilasciato un lavoro da lasciare le bocche spalancate, non solo aperte, specialmente quando ad aprire “Rediscovered Beauty of the Internal Evil”, ci pensa un attacco tipicamente brutal accompagnato da tocchi di pianoforte, vocals arcigne e suoni articolati, iper tecnici. Ancora una volta il quartetto di Szczecin si rivela imprevedibile in ognuna delle sue scelte, e si conferma tale in tutti i 51 minuti di questa brillante release, ahimè autoprodotta. “White Noise Ghosts” e la conclusiva “Path to the Black Lodge is Opened by Fear”, confermano la vena dei nostri e quindi quanto scritto di buono sino qui; auspico pertanto di iniziare a leggere un po’ più spesso il nome di questa esaltante nuova realtà della scena polacca, i Northwail, non ve li dimenticate! (Francesco Scarci)

Cult of Luna - Somewhere Along the Highway

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal
A volte quello che può scatenare l’ascolto di un disco ha dell’incredibile: emozioni profonde, distorte, talvolta in grado di turbare l’ascoltatore, di gettarlo in una profonda paranoia o generare ansia, paura, malinconia e angoscia. Direi che questo gioiello degli svedesi Cult of Luna, raccoglie un po’ tutti questi elementi e li proietta nella mente e nell’anima di noi ignari fruitori della loro musica. “Somewhere Along the Highway” è un piccolo capolavoro di Post-Core o come preferisco definirlo io, di “semplice” post rock. Sette tracce monolitiche, che mi tolgono assolutamente il respiro, per il loro incedere pachidermico, lento ma inquieto; sette brani introspettivi, psichedelici, strazianti e malinconici, dove le chitarre doom si fondono alla perfezione con il growl tormentato di Klas Rydberg, amalgamandosi poi con atmosfere estremamente rarefatte, cupe ed impenetrabili. I Cult of Luna sono dei pittori: con la loro musica pennellano paesaggi desolati, lande ghiacciate del Nord Europa, tenui luci crepuscolari e lo fanno con una naturalezza disarmante. 64 minuti di musica da vivere tutta di un fiato, musica che ci trasporta in un vortice d’insana follia, ci catapulta in un mondo parallelo fatto di suoni gelidi ma accattivanti, lenti ma potenti, violenti ma rilassati, aggressivi ma romantici... difficile descrivere un album così complesso come questa tappa inquieta dell’act svedese, tante e tali sono le emozioni che ne scaturiscono dal suo ascolto. I brani, sebbene la loro notevole durata, scorrono come il placido fluire di un fiume nel suo letto e io mi abbandono a questo scorrere, mi lascio sopraffare dalle lisergiche atmosfere create abilmente dalla mente di questi sette ragazzi. Notevoli le ultime due song del cd, “Dim” e “Dark City Dead Man”, vero apice dello spleen emozionale dei nostri, per le loro oscure ambientazioni su cui si innestano intriganti inserti elettro-noise. Nella discografia della band svedese, “Somewhere Along the Highway” rappresenta sicuramente il picco artistico mai raggiunto e l’unico consiglio che posso darvi è di acquistare questo disco se già non è custodito gelosamente nella vostra raccolta di dischi, per non perdervi ancora a lungo le suggestioni che questa perla rara nel marasma musicale, può suscitare... (Francesco Scarci)

(Earache Records)
Voto: 90
 

Icon & the Black Roses - Icon & The Black Roses

#PER CHI AMA: Love Metal, Gothic, HIM, The 69 Eyes
Gli Icon & The Black Roses, al loro esordio discografico per la label tedesca Dark Wings, si candidarono a diventare la nuova sensazione gothic-metal "made in Finland", se solo non provenissero da Lisbona! Un'affermazione al limite dell'assurdo, me ne rendo conto, ma anche la più schietta e veritiera, se si pensa all'effettiva fonte d'ispirazione di questi cinque ragazzi. Il filone del metal "romantico" inaugurato da HIM, To/Die/For e The 69 Eyes non è solo un semplice punto di riferimento per il gruppo portoghese, ma un'influenza da cui attingere a piene mani, nel tentativo di carpire ogni aspetto più intrigante del genere e assimilarlo nelle proprie composizioni senza risultare mai sgradevoli o pacchiani. Vorrei precisare che, non essendo un grande sostenitore del cosiddetto "Love Metal" (definizione che, per giunta, trovo orribile), non sono nemmeno la persona più adatta per recensire un disco che si rifà in modo così appassionato a queste sonorità. Devo ammettere però che i ragazzi sono in gamba e l'ascolto del cd si è rivelato comunque piacevole. Di "zucchero" gli Icon & the Black Roses ne usano in gran quantità ma sanno anche suonare molto bene e scrivere delle belle canzoni, due prerogative che non sempre sono così diffuse tra le band in erba intente a seguire i passi dei propri colleghi più famosi. Per il resto, il gruppo possiede tutte le caratteristiche per fare innamorare ogni ragazzina gotica dal cuore inquieto e dalla lacrima facile, vale a dire melodie vellutate, purpurei fraseggi di tastiera, robuste chitarre che rimandano subito al suono potente dei To/Die/For e infine una prova vocale fortemente debitrice dello stile "Valo", con tanto di quei respiri interrotti, quei sussulti e quelle esitazioni che fanno apparire la voce di Ville così sensuale. Non è da meno João Silva (ovvero Johnny Icon), che, oltre a dimostrarsi un "clone" apprezzabilissimo del cantante degli HIM, nell'album dà prova di notevoli doti interpretative. Resta un ultimo appunto: tentare a tutti i costi di cavalcare il successo di un genere musicale fortunato è sempre un arma a doppio taglio, per cui non so immaginare se in futuro i cinque portoghesi sapranno emergere dall'anonimato. Certo, i nostri hanno giocato al meglio le loro carte anche se dovrebbero liberarsi dalla pesante influenza HIM, unendo alle proprie capacità tecnico-compositive delle forti dosi di personalità, che per ora sembrano ancora mancare. (Roberto Alba)

(Darkwings)
Voto: 65

http://icon.no.sapo.pt/index.html

sabato 25 febbraio 2012

Soul of Steel - Destiny

#PER CHI AMA: Power/Progressive, Dragonforce, Sonata Arctica
Una band totalmente italiana, salentina per l’esattezza, che si mantiene nel filone del rock/metal: questi sono i Soul of Steel, composti da Gianni Valente (voce), Nicola Caroli (chitarre), Valerio De Rosa (chitarre), Daniele Simeone (tastiere), Nicola Logrillo (basso), Nicola Chiafele (batteria) e Roberto Tiranti (voce principale). “Destiny”, il loro primo lavoro ad un primo ascolto risulta orecchiabile ed energico con un sound che ricorda il power metal degli anni passati: la prima immagine però che mi è venuta in mente è stata quella dei Beehive, mentre suonano questo album. Apre la classica “Intro” fatta di suoni campionati, che tentano di creare una certa suspense, tuttavia non riuscendoci. Con “Swordcross” la vena power di cui parlavo pocanzi emerge totalmente, dapprima con un riff di chitarra accompagnata dalla batteria, poi anche con la tastiera e la voce. È grazie ai cambi di melodia e di velocità, se la canzone non risulta noiosa: se il cantante si mettesse a giocare sulle varie tonalità, il lavoro sarebbe più accettabile. “Running in the Fire” si apre più melodica, con le keys che danno il via libera agli altri strumenti: rispetto alla precedente song, questa tende ad essere più lenta e in certi tratti anche ripetitiva sia a livello lirico che musicale. Di buono c’è la parte solista, tutto il resto è poco più che accettabile. “Reborn” è caratterizzata da un ritmo incalzante e dalla preponderanza del connubio chitarra-batteria-tastiera. Il ritmo continua sulla falsariga degli altri pezzi, mentre la voce cerca di essere più energica. Dalla metà del brano in poi il ritmo rallenta, fino a creare un’aria più malinconica. Chiude il tutto un assolo di chitarra. Arrivati finalmente a metà album: “Wild Cherry Trees” è una delle tracce più melodiche di tutto l’album: la chitarra è per lo più acustica, il che associato alla tonalità dolce del cantante, crea un risultato apprezzabile. Solo verso la fine fa la sua comparsa la chitarra elettrica, come una specie di toccata e fuga. Lasciamoci alle spalle l’acustica, arriva “Till the End of Time”: sulla falsa riga di “Reborn”, ne sembra quasi la sua continuazione. L’unica cosa diversa è l’ausilio dei cori nel ritornello; per il resto, come già detto, sembra la gemella della quarta traccia. “Endless Night” si avvale della collaborazione di Roberto Tiranti dei Labyrinth: già dalle prime note, si può sentire un tentativo di lasciare in parte la melodia e dedicarsi maggiormente ai suoni power, con chitarre elettriche e batteria portati ad una velocità maggiore. Persino il cantato risulta più sperimentale, più energico: la flemma che presentava nei brani scorsi viene un attimo lasciata indietro. Merito della voce del Labyrinth? Probabile. Lentamente ci si avvicina alla fine dell’album, incontrando sul cammino “Wings of Fire”: portando avanti quella carica nata dalla canzone precedente, risulta anche gradevole, se non fosse per un assolo di chitarra un po’ troppo lungo: per il resto segue il leit motiv di tanta tastiera, batteria in secondo piano e tanta, tanta chitarra. Leit motiv del power metal, insomma. Con “Destiny”, title track, si chiude questa prima fatica dei Soul of Steel: melodica, ma sfruttante più le note elettriche anziché quelle acustiche, ne esce una canzone ricca di cori, con la tonalità vocale portata ad un livello più alto (ideale per il pubblico ad un ipotetico concerto, con le braccia ondeggianti e mani munite di accendini). Ciò che traspare da subito è un senso di malinconia così profondo che fatica a lasciarti persino dopo la fine del disco. In conclusione, c’è da dire che la voce nel complesso è poco incisiva e poco melodica (accomunandoli a due delle band power metal in circolazione – Sonata Arctica e Dragonforce – siamo molti gradini più in sotto): essendo però il primo lavoro, non resta che aspettare ed augurarci che il prossimo cd sia più energico e che trasmetta anche delle sensazioni più vere. (Samantha Pigozzo)

(Underground Symphony)
Voto: 50

Ceremonial Perfection - Alone in the End

#PER CHI AMA: Swedish Death, In Flames, Children of Bodom
Voi non avete neppure idea quanto meraviglioso sia avere delle aspettative ed essere certi che non verranno mai tradite. Questo per dire che quando ricevo un album da una di quelle tre minuscole repubbliche baltiche, so per certo che tra le mani qualcosa di interessante e che stuzzichi i miei sensi, c’è sempre. E oggi, l’album che mi accingo a recensire, ha tutte le carte in regola per suonare accattivante, emozionarmi e farmi scuotere il capo al ritmo grooveggiante delle sue facili melodie. I Ceremonial Perfection provengono dall’Estonia, suonano uno swedish death, stracolmo di groove, che riprende gli insegnamenti provenienti dal sound degli In Flames, capiscuola di questo filone. Nove le tracce contenute in questa brillante prova, “Alone in the End”, che sin dalla seconda “Symbols and Processes” (tralascio l’intro), ha il pregio di conquistarmi con la potenza del suo suono, la purezza della produzione, i chorus ruffiani, le melodie orecchiabili, le chitarre a la Dark Tranquillity, i suoi break in stile Children of Bodom, le vocals arcigne di Vitaly e quanto mai di meglio i nostri potessero rubare alla tradizione scandinava. La band mi ha già soggiogato con questa prima traccia, pur non avendo inventato nulla di nuovo. Abili strumentisti, i Ceremonial Perfection si rivelano anche eccellenti rifinitori e ottimi compositori, in grado di tracciare splendide melodie avvolgenti su una base ritmica sempre galoppante, anche se talvolta il quintetto estone si concede delle pause, per lasciarci prendere fiato: break acustici, mid-tempos, intermezzi tastieristici contribuiscono infatti a rendere “Alone in the End” un lavoro d’ampio respiro, vario e che decisamente non rischia di scadere nella noia totale. Tra le mie tracce preferite, vi voglio segnalare oltre all’opening track, “My Labyrinth”, la song più ricercata e differente del lotto e quella che prende anche maggiormente le distanze dallo swedish death; “Asymmetry”, roboante, frenetica, violenta e fresca come il vento di marzo nelle prime tiepide giornate di primavera. Questa in soldoni, la proposta di questi giovani ragazzi; non lasciatevela scappare! (Francesco Scarci)

(Fono)
Voto: 75
 

Exxasens - Eleven Miles

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Russian Circle, Mogway
Freschezza. Ecco la prima parola che mi viene in mente dopo aver messo il nuovo album degli spagnoli Exxasens nel mio lettore cd. Sottolineo che questa sensazione si ferma al tipo di sonorità, non alla composizione strumentale del LP. Questo forse è il più grande difetto del movimento post rock, ascolti un discreto cd che va poi puntualmente a finire in fondo allo scaffale, e difficilmente ti viene in mente di ripescarlo. Al contrario succede per quei dischi che ti segnano nel profondo e il nome dell' artista ti resta stampato sulla pelle come un tatuaggio. Ti ritrovi a cercarlo disperatamente in un particolare momento emotivo o solo perché del nuovo buon rock tarda ad arrivare. I catalani Exxasens dimostrano le loro doti nell' accuratezza del suono, in alcuni arrangiamenti, nella tecnica, ma purtroppo la linea melodica è il solito cambio malinconia-riscatto che si ripete nel classic post-rock. Alcuni riff sono veramente pregevoli, come l'attacco di "Constellation" o di "Rise up" che richiamano sonorità alla Kings of Leon e Killers dei vecchi tempi, ma a mio avviso potrebbero esplodere e crescere se non fossero stretti tra le catene degli schemi. Cavolo, l'ascoltatore, sia live che da cd, vuole anche essere sorpreso dall' evoluzione, altrimenti diventa il solito film americano dove puoi prevedere tutte le scene. Al momento non me la sento di dare più di questo, considerando che è la media di un sette per la tecnica e un cinque per la creatività/innovazione. Da risentire. (Michele Montanari)

(Aloud Music)
Voto: 60

mercoledì 22 febbraio 2012

Svanzica - Eos

#PER CHI AMA: Death Progressive, Novembre, Opeth
I veronesi Svanzica dovrebbero fare qualcosa: non è possibile dare alle stampe un album così prodotto. Occhéi, apprezzabile che abbiano fatto da soli (il disco è autoprodotto), ma non si sono accorti che la qualità è veramente pessima?! Ascoltare il CD è come guidare con certe nebbie delle mie parti nella notte: difficile e dal risultato molto incerto. Detto questo, potete immaginare come qualsiasi giudizio si possa esprimere sia già segnato. La mia impressione, ma anche quella di molti altri, è di una band alle prime armi, che ha buttato lì una caterva di spunti, alcuni peraltro neppure banali, in un crogiolo, cercando di ottenere un pozione “progressive” interessante. Ascoltandoli credo che si siano ispirati alle sonorità di gruppi come Opeth o Novembre. Il problema mi sembra nel manico, i loro limiti si sentono un po’ ovunque. Il cantato non mi convince, le melodie non funzionano come dovrebbero e le imprecisioni, purtroppo, si sentono, qua e là lungo tutto il disco. Le track sono fin troppo diverse tra loro, non c’è un filo musicale continuo che possa dare un senso alla produzione. Un lavoro alla fine noioso che mi ha lasciato molto scontento. Cosa mi sento di consigliare? Migliorarsi sicuramente da un punto di vista melodico ed esecutivo. Cercare di ridurre le idee ma di focalizzarsi di più, magari studiando uno stile personale. E poi occorre una produzione almeno decente, non è necessario averne una perfetta, ma non come questa che pare fatta nelle catacombe. Bocciati! (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto 50
 

Chupacabras - Inciviltà

#PER CHI AMA: Crossover, Thrashcore, Sick of it All, System of a Down
I liguri Chupacabras hanno deciso di farci sapere cosa ne pensano dei nostri tempi: non ne sono particolarmente contenti. Almeno è questo che ho capito dopo il primo ascolto del disco. Visto il bello schiaffo sonoro ai miei timpani, direi di averci preso. Un lavoro adrenalinico, diretto, aggressivo, con una cattiveria piacevole e con una certa denuncia sociale. Undici tracce che sembrano frustate, le cui poche parti melodiche non ne riducono l’assalto sonoro. La musicalità è tipicamente crossover/thrashcore: riffoni roboanti, schitarrate poderose e corrosive, ritmica incalzante, suoni energici e pesanti. La voce ruvida del cantante completa alla grande il tutto. Ah, complimenti perché l’interpretazione in italiano (la nostra lingua non si presta molto a questo genere musicale, dicono...) funziona bene: i testi e il cantato si sposano come raramente mi sia capitato di sentire. Certo, alcuni passaggi non risultano subito chiari fin dal primo ascolto, colpa un po’ dell’urlato e delle velocità tipiche del genere; tuttavia se ci fate attenzione apprezzerete il loro sforzo anche a livello dei testi. Tra le song, da notare “Incubo Catodico” e “Affuoco” per le chitarre particolarmente ispirate al thrash. Più indisciplinate “God Of War” e “Maschere”, forse sono anche quelle che si fanno ricordare di più. Carino il gioco di richiamo tra la guerreggiante “Rabbia”, e la radiofonica ed eterea “Rabbia Vol. II”. È vero: questo contrasto non è immediato (a me è sfuggito ad un primo ascolto), ma una volta notato mi ha convinto appieno. Le altre canzoni non si discostano, l’insieme è coerente e continuo. Stavo per dimenticare una piccola sorpresa del CD. I nostri hanno inserito una frase di Roberto Giacobbo, tratto da “Voyager”, che parla del mitico (rullo di tamburi)... chupacabras! “Inciviltà” non verrà ricordato come molto innovativo, tuttavia c’è abbastanza personalità, bravura e carattere da far passare in secondo piano le ispirazioni presenti. Bravi. (Alberto Merlotti)

(SG Records)
Voto 75
 

domenica 19 febbraio 2012

November-7 - Angel

#PER CHI AMA: Rock Gothic, Evanescence
Formatisi nel 2005 nella vicina Svizzera, i November-7 sono una band prolifica: già prodotti tre album e un dvd, oltre al video tratto dal loro primo singolo, che dà il titolo all'album: “Angel”. Uscito nel lontano 2007, si tratta del secondo lavoro: una base metal con elementi elettronici e orchestrali, come definito anche sul loro sito ufficiale. Il singolo accennato poco sopra è anche la traccia che apre l’EP. Su una base campionata spicca la voce delicata di Annamaria Cozza, accompagnata anche da chitarre ritmiche ed elettriche, dando però una sensazione fredda e distaccata. “Two Sides” è già più sull'industrial metal, più incisiva. Le tastiere e i suoi campionati creano la base del brano, con le chitarre che martellano incessantemente e creano un bel riff che cattura l'attenzione e permane nella mente. “Falling Down” è di tutt'altra pasta: malinconica, con la presenza di suoni di pianoforte e una voce modulata all'inizio, grintosa poi, con una parvenza di suoni orchestrali in sottofondo. “All the Things” gioca molto sulle estremità: da un lato pacata e rilassante, dall'altra forte e veloce. Come per il brano precedente, anche qui si possono sentire, molto vagamente, dei suoni orchestrali: la differenza è che qui il ritmo varia spesso di velocità, passando dal lento al veloce senza mai tralasciare le chitarre e la voce dolce, ma a mio avviso poco incisiva: non coinvolge appieno l'ascoltatore, come succede con la parte strumentale. La versione editata e accorciata ideale per la messa in onda in radio chiude l'album: a mio avviso, un lavoro che mi lascia la bocca asciutta. Come detto, la voce di Annamaria non mi sembra adatta per questo genere: troppo fredda, persino nelle parti sussurrate non stimola alcuna sensazione. La parte strumentale ha una sua energia, è persino piacevole da ascoltare: l'unica nota “stonata” continua ad essere la tonalità della vocalis, che fa perdere punti alla band. Speriamo nel nuovo album, magari più coinvolgente e sensazionale. (Samantha Pigozzo)

(Dark Essence Records)
Voto: 60

Emil Bulls - The Black Path

#PER CHI AMA: Metalcore, Killswitch Engage

Dalla Germania ecco arrivare la new sensation in ambito metalcore. Si tratta questa volta di una giovane band alle prime armi che comunque, in questo “The Black Path”, mostra già tutte le proprie buone potenzialità. La musica dicevamo, fortemente influenzata dalle sonorità americane, imbocca una propria strada, cercando di prendere le distanze dal metalcore statunitense dei vari Shadows Fall, Killswitch Engage o dalle creature più hardcore Hatebreed e Unheart. Non male, non male davvero la proposta del combo teutonico, questo perchè i nostri sono abili nel miscelare partiture tipicamente “core” ad altre più rock oriented, grazie sicuramente alle vocals di Christoph von Freydorf, abile nel passare dal classico scream vetriolico a clean vocals che potrebbero ricordare quelle dei Radiohead. La musica, proprio adattandosi a questo alternarsi bivalente del vocalist, passa da momenti tempestosi tipici del metalcore a passaggi molto più interessanti, in cui è un sound più rallentato, oscuro e ritmato a dettare i tempi. 14 songs che presentano come minimo comun denominatore dei riff di chitarra possenti, ma al di là di alcune sfuriate hardcore, sono le “ruffiane” melodie emo a tener banco e a conquistare l'ascoltatore. Per concludere, pur non trattandosi di un capolavoro, “The Black Path” ha il coraggio di andare oltre alle solite cose uscite in ambito metalcore. Promossi a pienissimi voti! (Francesco Scarci)

(Drakkar Records)
Voto: 70
 

Hekate - Goddess

#PER CHI AMA: Folk, Medieval
Dopo la pubblicazione del 2003 della raccolta “Ten Years of Endurance” e dopo un silenzio durato tre anni dall'uscita del precedente album (“Sonnentanz”), torna la formazione tedesca degli Hekate con “Goddess”, contenente undici brani che si ispirano ai miti e alle leggende d'Europa. Devo ammettere che, prima di ascoltare l'album, conoscevo gli Hekate solo di nome e "di presenza", avendo avuto l'occasione di vederli suonare dal vivo per Allerseelen, ma ora li annovero fra quelle piacevoli scoperte che da un po' di tempo a questa parte caratterizzano i miei ascolti e che comprendono, in ambito folk, anche Derniere Volonte e Tenhi, con i quali, tuttavia, condividono solo l'appartenenza al genere, avendo infatti gli Hekate un sound molto diverso da quello delle due band citate. Dicevo che i pezzi traggono ispirazione da mitologie legate al vecchio continente e, infatti, troviamo la leggenda della Fata Morgana tratta dalla mitologia celtica nel brano d'apertura “Morgan le Fay”, la leggenda di Grail che coinvolge i Catari del Castello di Montségur in Francia in “Montségur”, il mito germanico di Barbarossa e del Kyffhaeuser in “Barbarossa”, la leggenda dell'Europa basata sulle tradizioni Cretese e Miceana in “Europa”, la danza del toro tratta dalla cultura Minoica in “Dance of Taurus”, la storia di Spagna e influenze culturali dei Mori in “Maure”. Inoltre, vi sono richiami alla lotta per l'amore che unisce tutti i popoli in “Flammenlied” e “Ocean Blue”. Da un punto di vista prettamente musicale, “Goddess” può essere descritto come l'unione di sonorità folk con melodie medievali, accompagnate da una massiccia base di percussioni che infondono nei brani una forte energia dal sapore ritualistico e atmosfere magiche di impronta pagana. Bastano le prime note del brano di apertura, “Morgan le Fay”, per essere proiettati in un altro tempo e iniziare così un viaggio attraverso le culture e le tradizioni descritte superbamente dagli Hekate con la loro musica. I due elementi più caratteristici di questo progetto, ovvero le instancabili percussioni che accompagnano ogni brano e la voce di Susanne Grosche (a volte sostituita da quella di Axel Menz), sono anche quelli che più si apprezzano e che emozionano maggiormente durante l'ascolto dell'album. L'aura romantica e nostalgica di alcuni pezzi (“Morgan le Fay”, “Montségur”, “Barbarossa”) unita ad arrangiamenti moderni, a volte elettronici (“Flammenlied”, “Break the Silence”), a volte pop (“Dance of Taurus”, “Maure”), o ad atmosfere epiche (“Morituri te Salutant”, “Lord of Heaven”, “Europa”) rendono “Goddess” ancor più caratteristico e dalle sfumature sonore ed emotive variegate. Per i collezionisti e gli appassionati, il cd è uscito anche in una versione in digipack contenente un secondo disco che riporta tracce degli Hekate remixate da Arcana, Ordo Rosarius Equilibrio, Flatline, Sieben, Chorea Minor e Gae Bolg and the Church of Fand. Consiglio a tutti di non perdere questo lavoro, qualsiasi sia la versione che vorrete fare vostra. (Laura Dentico)

(Auerbach Tonträger)
Voto: 75

Gardenjia - Ievads

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Vildjartha
Finalmente anche l’Italia mostra i primi segni di contaminazione djent e ne abbiamo la prova con i brindisini Gardenjia, che hanno rilasciato da poco questo EP di quattro pezzi, tra i quali vi è contenuta anche la cover degli Heroes del Silencio, “Entre dos Tierras”. Il cd si apre con la traccia omonima e i nostri baldi giovani mostrano da subito i muscoli attaccando con una intricatissima ritmica da paura, in pieno stile “Meshugghiano”: tempi dispari, chitarre polifoniche super distorte, stop’n go palpitanti, atmosfere claustrofobiche e la voce al vetriolo (ma anche pulita) di Raffaele Galasso; pazzesche linee di chitarra e assoli schizofrenici completano il quadro, da fine del mondo della prima monumentale traccia. Signori, cha band esplosiva ho tra le me mani. Attacca “A Beast Called Man” e accanto alle influenze di scuola scandinava, costantemente corredate da un’ottima tecnica individuale, di cui voglio esaltare l’eccellente prova fantasiosa del drummer Antonio Martire, trovano spazio anche divagazioni in territori un po’ più progressivi, pur mantenendo comunque un lacerante e al contempo malinconico substrato musicale. “Stones as Dry Leaves” apre ancora con la delicata irruenza di matrice djent; mi vengono in mente i Vildjartha più rilassati e gli Uneven Structures più ipnotici, due band che lo scorso anno mi hanno fatto venire le vertigini, e se posso essere sincero, i Gardenjia non sono poi cosi tanto lontani dalle performance dei colleghi nord-europei, anzi vorrei sottolineare la capacità del trio pugliese di spingersi oltre, con schegge contaminate dal crossoverizzato sound degli ultimi Cynic, spaziali. A chiudere il cd ci pensa l’inopportuna cover degli Heroes del Silencio, che mi lascia un po’ cosi, perplesso: sicuramente l’ho fischiettata piacevolmente poiché erano anni che non la sentivo, ma sinceramente non capisco il motivo di includere questa song all’interno dell'EP. A parte questo, ora mi aspetto il rilascio di un full lenght vero e proprio in modo tale che quel 75 là sotto, possa schizzare un po’ più in alto… (Francesco Scarci)

sabato 18 febbraio 2012

Handful of Hate - Vicecrown

#PER CHI AMA: Swedish Black Metal, Marduk, Dark Funeral
Dopo dieci anni di vita e dieci anni di onesta militanza tra le frange più estreme dell'underground metal, con “Vicecrown” gli Handful of Hate raggiunsero il traguardo del terzo full-length e sotto l'ala protettrice della Code666 pubblicarono quello che secondo il mio parere è il loro disco migliore. Durante gli anni Nicola Bianchi ha mantenuto in vita in maniera caparbia e coraggiosa un progetto che fin dagli inizi ha affondato le proprie radici nell'intransigenza sonora del black metal, mantenendo nel contempo una fiera autonomia di pensiero che all'interno della scena estrema lo ha reso estraneo sia alle tentazioni verso la blasfemia grossolana, sia alle arie altezzose e fintamente erudite di tanti improvvisati opinionisti dell'occulto. Ad accompagnare la musica degli Handful of Hate è invece un substrato culturale credibile e serio, un punto di forza che ha sempre coinciso con altre due qualità fondamentali che vanno attribuite al gruppo toscano: una grande coerenza ed un'umiltà comune a pochissimi altri nomi italiani. Riguardo al lato strettamente musicale va detto che la band si è sempre dichiarata in qualche modo debitrice del black metal di matrice svedese, ma con “Vicecrown” è evidente come il suono di Dark Funeral e Marduk sia stato assimilato talmente bene da ottenerne una piena padronanza, tanto da riuscire a creare qualcosa di nettamente più coinvolgente di quanto stiano proponendo oggi le due navigate formazioni scandinave. Rispetto ai primi due album, “Qliphotic Supremacy” e “Hierarchy”, il salto qualitativo compiuto è dunque notevole, non solo per il superbo lavoro di produzione che finalmente rende giustizia alle capacità tecniche dei musicisti, ma soprattutto per la validità dei nove brani, che stavolta riescono a fare male sul serio! Quello dell'opener “I Hate” è un assalto frontale senza compromessi, una spietata affermazione di supremazia e di cieca determinazione che apre il varco alla furia di “Beating Violence” e “Risen into Abuse”, le quali si susseguono in un'incessante manifestazione di violenza che a tratti potrà risultare difficile da sostenere per chi non possiede orecchie ben allenate. Urla laceranti e paurosamente glaciali sono accompagnate da una sezione ritmica precisa e devastante che nei rari momenti di tregua concessi non perde nulla della sua intensità e contribuisce, anzi, a rendere ancor più equilibrato il suono, aiutando a sottolineare la monolitica pesantezza dei riff di chitarra più lenti (come in “Boldly Erected” e “Hierarch in Lust”). Persino nei momenti più tirati, quando gli strumenti vengono spinti a folle velocità, la band mantiene un invidiabile controllo sull'esecuzione, dando vita ad un magma sonoro compatto e distruttivo che vede costantemente in primo piano l'enorme lavoro di chitarre, le assolute protagoniste dell'intero lavoro. Per chi non è avvezzo a certe sonorità è indubbio che la pesante omogeneità dei brani potrà rendere “Vicecrown” un'opera ostica da digerire e questo è l'unico neo che penso si possa individuare in un album comunque ottimo, che resta destinato principalmente a chi ricerca nella violenza e nella velocità - non certo nell'intrattenimento - il pane per i propri denti. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 75
 

Mercenary - Architect of Lies

# PER CHI AMA: Death/Heavy, In Flames, Nevermore, Gardenian
A me i danesi Mercenary, sinceramente sono sempre piaciuti, per quella loro capacità di essere incazzati e melodici al tempo stesso. “Architect of Lies”, che segue di un paio d'anni il forse fin troppo melodico “The Hours that Remain” (vincitore del Danish Metal Award come miglior album dell'anno), conferma il buono stato di salute del sestetto scandinavo, che dopo un lungo tour europeo, si è chiuso in studio per diversi mesi, per partorire questo valido come back, il quinto per i nostri. Dieci tracce per più di cinquanta minuti di musica brillante, ben suonata, che riprende l'ardore più selvaggio delle prime release, ben bilanciandolo con la spiccata melodia e gli elementi catcy del precedente lavoro. Forte è l'influenza dello swedish death più melodico e grooveggiante (gli ultimi In Flames e Soilwork), ma pure il thrash made in USA (a la Nevermore) trova spazio nel sound dei nostri. Il six-piece danese, si dimostra comunque assai maturo: ottimo il song writing, buone le sonorità che miscelano un death ben strutturato, al tempo stesso assai melodico e accattivante con partiture quasi rock'n roll, frutto del dualismo creato dai due vocalist, René in versione growl e Mikkel dall'impostazione squisitamente rock. Credo proprio che questa apertura, che già era stata apprezzata in passato, apra ulteriormente i confini della musica dei Mercenary anche a chi non ha le orecchie abituate al death metal. “Architect of Lies” si conferma lavoro solido e interessante, destinato ad una fetta di pubblico assai vasta. (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 75