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domenica 29 maggio 2011

Aborym - With No Human Intervention

#PER CHI AMA: Black Industrial, Carpathian Forest, Dodheimsgard
“With No Human Intervention” non è semplicemente il terzo album per gli Aborym, ma un altro marchio a fuoco nella musica estrema contemporanea, un ulteriore affermazione di indiscutibile superiorità della formazione capitolina. Seguo gli Aborym fin dal loro debutto “Kali-Yuga Bizarre”' e sebbene gli esordi della band fossero più che promettenti non avrei mai immaginato di farmi coinvolgere in maniera così appassionata dalla loro musica. “Fire Walk with Us!”, il secondo capitolo, mi turbò letteralmente quando lo ascoltai per la prima volta e mi fece aprire gli occhi su quanto l'arte degli Aborym fosse innovativa, disturbante ed annichilente. Per il sottoscritto quell'opera rimane un capolavoro, un album avvolto nella malvagità più autentica, un vettore di energia distruttiva impossibile da convogliare e troppo sfuggente per essere carpita in tutti i suoi impulsi. “With No Human Intervention” lancia lo stesso messaggio spietato del suo predecessore, un messaggio di dissolutezza, odio e violenza di cui gli Aborym rappresentano ormai gli unici efficaci portavoce e che in questa occasione viene condiviso assieme ai numerosi ospiti dell'album: Bård "Faust" Eithun (ex-membro di Thorns ed Emperor), R. Nattefrost dei Carpathian Forest, Sasrof dei Diabolicum, Irrumator di Anaal Nathrakh e Matt Jerman di Void/OCD. Brani come “WNUI” e “U.V. Impaler” sono la prova di una vena creativa inesauribile e di un intuito geniale, sono scariche elettriche inebrianti che attraverseranno il vostro corpo galvanizzandolo e lasciandolo in preda alle convulsioni. I pezzi sorprendono per la loro bestialità e le litanie di Attila non erano mai state così isteriche e contorte prima d'ora! I ritmi frenetici ed esasperati sostenuti dalla drum-machine ricordano molto da vicino il black metal industriale che vide i Mysticum come precursori del genere, ma gli Aborym possiedono un suono estremamente più complesso rispetto alla seminale formazione norvegese e il loro uso così impavido e folle dell'elettronica rende sterile qualsiasi tentativo di paragone. “Does Not Compute” e “Chernobyl Generation” sono schegge impazzite di tecnologia, bagliori fluorescenti che corrodono e dilaniano l'anima, mentre i dieci minuti di “The Triumph” riesplorano l'eclettismo del debutto, spaziando dalla melodia del black metal più cadenzato fino ad un'apnea di orgiastica electro. In questo terzo sigillo l'odore insopportabile di sangue e morte che si respirava in “Fire Walk with Us!” ha lasciato il posto a quello più asettico delle macchine, tra le profetiche visioni di un mondo in cui sono le fabbriche a dominare e ad ergersi minacciose sulle nostre tombe. Queste sono le visioni evocate da “With No Human Intervention”, un'opera costruita per celebrare la vostra fine, per divorarvi ed annientarvi... (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 85

Steny Lda - Steny Lda

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Isis
L’attivissima etichetta Slow Burn Records ha dato alle stampe lo scorso dicembre al full lenght di debutto dei russi Steny Lda (il cui significato è “Muri di Ghiaccio”). La proposta dell’act sovietico (non mi è dato di sapere il numero e il nome dei membri della band), è in linea con le proposte della sub label della Solitude Productions, ossia un post metal/sludge che a parte le ultime due tracce, è da considerarsi un disco meramente strumentale e proprio qui risiede il punto debole di un disco che avrebbe potuto meritare un voto molto più alto se solo una giusta voce avesse completato l’opera. Questo si evince dalla necessità di completare qualcosa di estremamente strutturato, insomma come la vedreste voi se gli Isis avessero suonato esclusivamente senza il cantato caldo e selvaggio del buon Aaron Turner? Io non molto bene, in quanto le vocals a mio avviso costituiscono un vero e proprio strumento a disposizione della band, per conferire maggiore personalità o dinamismo ad un disco. E questo “Steny Lda”, per quanto sia un cd che a me piace, trova la sua pecca nella mancanza di quelle vocals che avrebbero potuto donare una maggiore dinamicità ad un disco che è tuttavia in grado di offrire buoni spunti a livello musicale. E dire che gli ingredienti per fare il botto ci sono tutti: ritmiche in pieno stile sludge (ottima “O-M-G”) si avvicendano con atmosfere più soffuse, tipiche del post rock, quasi a voler tributare i Mogway (ascoltate “0-5-7”), con i loro passaggi delicati e a tratti ripetitivi, quasi una sorta di ninna nanna che ci spinge verso una dimensione più onirica. Ma è poi la componente elettrica a riemergere più preponderante come nella successiva “H-M-T”, che a parte riproporre le urla già trovate in “O-M-G”, viaggia sui binari del post metal melodico sospinto da una forte vena malinconica. Le fastidiose urla del vocalist tornano anche in “C-O-W” (quanto mi piacerebbe conoscere il significato di questi simboli e numeri), mentre la settima “C-W-B” mostra un sound più vicino a Mastodon e Baroness, con delle ritmiche grooveggianti dal forte flavour sudista. Ma ancora una volta è il piglio post rock depressivo a riemergere con finalmente un cantato “normale” (tuttavia da rivedere in quanto poco espressivo), cosi come pure nell’ultima “1-0” che chiude un disco che per quanto possa risultare interessante, mi lascia comunque con l’amaro in bocca, per tutte quelle potenzialità ahimè inespresse. Rimango in attesa di un come back discografico per prendere una posizione più definita per ciò che concerne questi Steny Lda. Nel frattempo godiamoci questo debutto, che “del domani non v’è certezza” (Francesco Scarci)

(SlowBurn Records)
Voto: 70

Terra Tenebrosa - The Tunnels

#PER CHI AMA: Sludge, Ambient, Noise, Neurosis, Cult of Luna
Mistico, intrigante, seminale, tribale, pachidermico, disturbante, enigmatico… ecco riassunto in poche inequivocabili parole quanto racchiuso nelle sette tracce di questo unico “The Tunnels”, album degli svedesi Terra Tenebrosa, band che nasce da ex menti malate dei Breach. Il risultato è palese fin dall’iniziale “The Teranbos Prayer”: attacco affidato ad una ipnotica batteria dall’incedere tribale, e poi ecco che una malsana atmosfere rende reali i peggiori dei nostri incubi, quasi la colonna sonora ideale per lo spettrale film “Donnie Darko”. Rimango basito di fronte a questi suoni, costantemente accompagnati da una voce aliena. Non ho ancora superato quella sensazione di pura angoscia inflittami dalla opening track, che vengo aggredito dal basso malefico di “Probing the Abyss”, e dal quel suo incedere ossessivo, che ancora una volta mi spinge a rifugiarmi come un bambino spaventato, raggomitolato in un angolo della sua cameretta. “The Tunnels” ha un effetto devastante sulla psiche di chi lo ascolta, slatentizzare tutte le nostre paure e indurci a rifugiarci all’interno di noi stessi. Mi appresto ad affrontare i dieci minuti di “The Mourning Stars”, ma sono solo con la mia assenza di fiato, neppure abbia percorso i 42km della maratona. Fortunatamente, la song parte piano, delicata, ma sono consapevole che dietro le ante di quell’armadio, che tanto mi spaventava da piccolo, si celi realmente un mostro diabolico, forse il cuculo (the Cuckoo), la figura a cui i Terra Tenebrosa fanno riferimento all’interno di questo album. Il brano non nasconde l’amore dei nostri nei confronti dei Neurosis, per quelle tipiche lisergiche atmosfere e sonorità che hanno reso grande la band californiana. I suoni apocalittici s’ingrossano man mano che la musica fluisce nel suo importunante avanzare, con le vocals quasi indecifrabili che fanno da sfondo a cotanta follia. Un rigurgito black metal si scatena nell’incipit demoniaco di “The Arc of Descent” anche se poi nella sua parte centrale sono, al solito, le claustrofobiche ambientazioni a farla da padrone. Il viaggio all’interno dei nostri incubi più reconditi prosegue con la strumentale e ripetitiva “Guiding the Mist/Terraforming”. “Through the Eyes of the Maninkari” è l’ennesimo tributo dei nostri al sound dei pionieri del genere: doom, sludge, industrial, ambient e noise si fondono alla perfezione in questo catalettico lavoro, fino alla conclusiva title track, degna conclusione di questo cd sprigionante emozioni centrifuganti. Se non volete, che il vostro viaggio si interrompi qui, sappiate che la versione in vinile racchiude la bonus track "Breaking Open the Head" per altri 15 minuti di delirante passione. Sia chiaro, l’album non sarà di facile assimilazione per chiunque si voglia avvicinare, senza avere un po’ di dimestichezza col genere, il rischio è di restare bruciati. Per chi è avvezzo a simili sonorità, l’ascolto è d’obbligo. Immaginari. (Francesco Scarci)

(Trust No One Recordings)
Voto: 85

Raven Woods - Enfeebling the Throne

#PER CHI AMA: Black Death, Behemoth, Melechesh
Chissà qual’era l’intento della Code 666 quando ha arruolato nel proprio rooster i turchi Raven Woods? Trovare i nuovi Behemoth o forse proporre qualcosa di brutale e al contempo “sporcato” da melodie di mesopotamica derivazione (vedi Melechesh)? Non saprei dire, quel che è certo è che la proposta musicale del five-pieces anatolico è un death black che si rifà senza ombra di dubbio alle due band sopra menzionate, anche se i nostri tendono decisamente a privilegiare la proposta di Nergal e soci. Il genere quindi è già ben delineato nelle vostre menti, veniamo pure al risultato: dopo l’intro si viene subito travolti dalla title track e da “Breathless Solace” che confermano immediatamente che quello che ho fra le mani è un prodotto di metal estremo e brutale, caratterizzano da un riffing tonante e fragoroso (complice un’ottima produzione) che esalta tutti gli strumenti, in particolar modo la batteria di Semih che si rivelerà nel corso del disco, fantasiosa, a tratti sincopata, ma costantemente devastante (spaventosa in “Ecstasy Through Carnage”). Certo, lo spettro dei Behemoth continua ad aleggiare sui nostri, prevalentemente a livello delle ritmiche, sempre tirate e sempre a cavallo tra death e black, e dove la melodia è relegata a pura spettatrice. Tra un passaggio orientaleggiante (si ascolti il meraviglioso bridge di “Torture Palace”, la mia song preferita o “Upheaven-Subterranean”) e un outro acustico, i nostri riescono a sfoderare brillanti prove anche in chiave chitarristica, dove i solos confezionati dal duo Cihan/Emre, si riveleranno alla fine assolutamente azzeccati. Non posso non citare anche la prova egregia alla voce di Kaan, che si diletta alternandosi tra lo screaming black e il gorgoglio death, bravo. Insomma, fondamentalmente a me questo disco piace, anche se talvolta potrà balzarvi all’orecchio qualcosa di un po’ troppo derivativo o peggio, piattino. Quel che è certo è, che ancora una volta la Code 666 ha piazzato un colpo vincente con una semisconosciuta band dalle grandi potenzialità, stiamo a vedere in futuro che accade, ma sono certo che sentiremo ancora parlare dei Raven Woods e non per forza questa volta, confinati nell’underground più estremo. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Vo
to: 70

Alpthraum - Cacophonies from Six Nightmares

#PER CHI AMA: Black Ambient Funeral Doom
Ci sono generi, nel metal, che sfociano in importanti esperimenti sonori e le influenze sono talmente varie che spesso si fatica a ricavarne l’origine. Generi che esaltano e distruggono allo stesso tempo, che instillano una malinconia sottocutanea a tratti demistificata. Musica di nicchia, senza dubbio. Gli Alpthraum sono una di queste band. Impossibili da definire. È musica nera che più nera non si può. Dopo attenti ascolti mi sono ritrovato a riflettere sulla natura viscerale dei sentimenti che stanno alla genesi di un disco come questo, e, allo stesso tempo, ho cercato di comprendere le fondamenta che sottostanno a un genere tanto ricercato. Fondamentalmente “Cacophonies from Six Nightmares” dovrebbe (usiamo il condizionale) essere un album black metal. Almeno, da un calcolo quantitativo, le atmosfere tipicamente black risultano le più consistenti nel corso delle sei tracce. Un sound alla “Wolven Ancestry” tanto per intenderci, primitivo e animale. Non solo. L’uso artificioso di lunghissime pause e il pesante ricorso ad elementi ambient, formano un disco di rara complessità, e mi rendo conto che per i non addetti ai lavori può essere una sfida riuscire ad arrivare fino alla fine dell’ascolto in una sola volta. Il maggior punto a favore, che rimane però anche quello più problematico, resta il sapiente dosaggio di violento black ad un’atmospheric-doom (è davvero difficile rinchiuderlo in un’etichetta generica) che richiama alla lontana il sound dei Void of Silence. La sesta traccia dell’album (il sesto degli ultimi incubi cui allude il titolo) si dimostra una performance di sei minuti (che sia un caso?) in cui non compaiono chitarre o batteria. È l’inquietante soliloquio di una creatura indefinita, alternato a suoni e rumori che coinvolgono l’ascoltatore in un’atmosfera inconcepibile per la mente umana, quasi una nenia sacrale. Caos e silenzio. Caos e silenzio. Caos e silenzio. I lettori accaniti di Lovecraft, come lo è il sottoscritto, potranno trovare in quest’opera musicale il perfetto sottofondo per gli orrori dell’altrove, anche se, rimanendo in campo doom, gli Antichi rimangono patrimonio storico dei Thergothon. Sconsigliato a chi è affetto da tendenze suicide. (Damiano Benato)

(Kunsthauch)
Voto: 70

Samael - Lux Mundi

#PER CHI AMA: Celtic Frost, Rammstein, Laibach
Annunciato già da tempo come un ritorno alle vecchie sonorità di “Passage” ed “Eternal”, l’ultimo lavoro in studio dei Samael rivela senz’altro la volontà di riaccostarsi ad un sound che verso la seconda metà degli anni ’90 aveva portato la band svizzera a ricevere larghi consensi nel sottobosco del metal estremo. E’ ora lecito interrogarsi se questi intenti nostalgici bastino a ripercorre i fasti del passato, ma i dubbi si sciolgono abbastanza rapidamente, senza necessità di superare i primi quattro brani del disco. In “Lux Mundi” ritroviamo le medesime atmosfere apocalittiche degli album citati poc’anzi, le stesse ritmiche meccaniche ed un incedere marziale stilisticamente inconfondibile che si pone a metà strada tra black e industrial metal, tuttavia è la forza dei singoli brani a risultare quasi impalpabile. Non si può dire che nell’economia delle canzoni manchino il dinamismo e la capacità di concepire architetture musicali complesse, d'altronde siamo sempre al cospetto di un quartetto di musicisti più che navigati. Ciò che in realtà fatica ad emergere è l’energia, quello straordinario vigore sprigionato da vecchi cavalli di battaglia quali “Shining Kingdom”, “Liquid Soul Dimension”, “Year Zero” e “The Cross” (solo per citarne alcuni). Tralasciando l’interlocutorio “Above”, va aggiunto che i Samael avevano comunque raggiunto uno splendido equilibrio in album come “Reign of Light” e “Solar Soul”, entrambi contraddistinti da un approccio più innovativo, elettronico e commercialmente appetibile, per cui risulta incomprensibile o perlomeno deludente una virata verso schemi già ampiamente esplorati e sui quali risulta evidentemente difficile recuperare una rinnovata ispirazione. Nonostante l’ascolto più minuzioso dell’album faccia emergere un paio di episodi riusciti come “For a Thousand Years” e “In the Deep”, “Lux Mundi” non regge comunque il confronto con il passato e rassomiglia tanto ad una raccolta di b-side che non trova una dignitosa collocazione all’interno di una discografia che fino ad oggi aveva toccato livelli qualitativi eccellenti. (Roberto Alba)

(Nuclear Blast)
Voto: 60

sabato 28 maggio 2011

Zifir - Protest Against Humanity

#PER CHI AMA: Black mid tempo, primi Nachtmystium, Burzum
Ecco un album che ci si sente obbligati ad ascoltare per intero, un viaggio di sola andata da affrontare da soli attraverso nove agonizzanti stazioni di puro suono ipnotico. Non è una metafora campata in aria. L’intera opera appare davvero progettata come un itinerario attraverso i luoghi più bui (e puri) dell’anima. Si parte con un’intro strumentale, lenta e commovente, commutata in un abbandono definitivo dai luoghi dell’innocenza per immergersi a poco a poco in un sound più ostile, amaro, graffiante. Le chitarre ‘a zanzara’ sono le reali dominatrici di questo universo sonoro. Permeano ogni tonalità con la stessa frequenza con cui penetrano nel cervello di chi le ascolta. Ronzano indistintamente in passaggi lenti e veloci, violenti e melanconici rievocando a tratti i primi Nachtmystium, altrettanto drogati dall’onnipresenza sciamica. Gli Zifir assorbono elementi da molte band del genere black (io lo definisco con affetto spiritual slow black), riuscendo tuttavia a sperimentare e dare vita ad un interessante lavoro, dimostrando capacità e serietà nella composizione delle tracce, che pur riproponendo un sottofondo ipnotico non si dimostrano mai ripetitive. Sono dell’idea che sia necessario avere una conoscenza a priori di questo tipo di metal, altrimenti risulta impossibile apprezzarlo appieno e viene percepita solo un’accozzaglia di strumenti e voci sofferenti. Il risultato è ben altro. Queste band creano sinergia e non è possibile dire: “Ehi, senti questo ritornello!”. Il ritornello non c’è, non esiste. Ogni canzone deve essere ascoltata per intero nella sua evoluzione. Solo così si può comprendere, ad esempio, perché le tracce più lente e pseudo strumentali siano “Uncertain”, “The Poison From My Veins” e “Goat’s Throne”, rispettivamente la prima, la quinta e l’ultima. “Goat’s Throne”, in particolare, rappresenta in sintesi l’anima dell’intero album. Otto minuti di inospitalità in cui si passano in rassegna tastiere gotiche, voci pulite alternate a screaming e lamenti stile Burzum. Unica pecca, dal mio piccolo punto di vista, il titolo dell’album, che per fortuna non ha una title track. Non può esserci una protesta contro l’umanità, se quest’opera stessa parte dalla negazione di quello che la società umana comporta. Così come ogni opera d’arte del genere umano, qualunque sia il messaggio che intende veicolare, non avrebbe ragione di esistere se tale significato non venisse trasmesso. Apprezzo moltissimo la qualità di questa musica, ma la troppa estremizzazione dei testi a volte mi sembra superficiale e stereotipata. Ciò non toglie la qualità di un album come “Protest Against Humanity”, e quello che incarna: una selvaggia, carnale epifania. Tutta in ascesa. (Damiano Benato)

(Kunsthauch)
Voto: 80

giovedì 26 maggio 2011

Cult of Erinyes - Golgotha

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal, Absu, Mayhem, Ondskapt
Ritualistic black metal, interessante definizione per questi sconosciuti Cult of Erinyes provenienti da Bruxelles. EP d’esordio datato 2010 questo “Golgotha”, fa da apripista al nuovissimo lavoro “A Place to Call My Unknown”. Apertura ambient affidata ai 3 minuti e mezzo di “Anima”, che fa delle atmosfere rituali il suo punto di forza; poi ecco scatenarsi l’inferno con “The Glowing Embers” che esplode in tua la sua veemenza black con una ritmica martellante di chiara matrice old school. I suoni non sono proprio il massimo, ma la furia black non cerca di certo suoni bombastici per scatenarsi; l’incedere delle ritmiche si avvicina notevolmente a quello del mitico “De Mysteriis Dom Sathanas” degli immensi Mayhem, con le vocals di Mastema che provano egregiamente a ricalcare quelle del buon vecchio Attila. Se devo essere sincero è proprio la parte vocale ad entusiasmarmi maggiormente in questo lavoro della durata di poco più di 15 minuti, dove l’aria sulfurea che si respira, si fa ancor più malsana e intrigante nella terza e conclusiva, “The Year All Light Collapsed”, che fa decollare qualitativamente la proposta del terzetto belga. Suoni rallentati, al limite del doom si intrecciano con un mood d’avanguardia (dimostrato anche dalle cleaning vocals) che sfocia in un finale suggestivo, un inno alla guerra, con il drumming di Baal davvero epico e le vocals gracchianti in marcia verso la vittoria. Peccato solo per l’esigua durata dell’EP, altrimenti sono certo che la band avrebbe meritato di più. Ora attendo l’ascolto del full lenght che segna l’esordio sulla lunga distanza per questo nuovo combo mitteleuropeo. Interessantissimi! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

lunedì 23 maggio 2011

Owl - Owl - English

#FOR FANS OF Brutal death
Kolf Christian must be a forge of ideas and above all must have plenty of free time to afford to have so many bands: Island, Valborg, Woburn House, Orbo, Slon, Centaurus-A, Kosmos Wald and now this latest creation, the Owl. Once again, helped by the loyal Patrick Schroeder, drummer on duty in several of its businesses, Christian creates this time a work that plunges into the darkest, more claustrophobic, intransigent and toughest death metal to hear, maybe also because of the endless duration of some songs. It begins with the "Conquering the Kingdom of Rain" and its 13 minutes of extreme sounds played on gloomy mid-tempo, distressing and at the end crawling like an extremely dangerous boa constrictor who is about to threaten and then grab its prey. In all this obsessive pace of guitars actually never that boring, are perhaps the dissonant sounds of the guitars which contribute to the darkening of the already gloomy by itself atmosphere, not to mention the growling vocals, which are making the proposal even more depressing. None of these hearings is easy to listen here, make up an excuse for yourselves soon; otherwise you too will end up being crushed in the deadly grip of the boa. From the “owl" this release probably only has those nocturnal sounds that are found in the finale of the opening track that gives room to a gloomy, brutal and pounding sound of the "Lost in the Melting Mountain Vaults Underneath of the Saints", a sort of psychotic version of Nile, merged with the delirious musical shrewdness of the visionaries Deathspell Omega, while the cavernous vocals of Mr. Kolf continue to haunt our worst nightmares. The suggestion of the Owl is proving increasingly deadly as it advances through listening and my poor ears are also strained by the long third track that continues to make palpable the feeling of death that comes out of in this fetid platter. At the fourth "Spell of the Ignis Fatuus That Lead to the impalpable Altar of Beasts", characterized by hyper fast blast beats, I almost thought that I got away with it because only a piece separates me from the end of this boring cd, but soon I realized that the conclusive "Threnodical Ritual at the Spectral Shores of the Eternal Sunset" lasts 30 minutes. Terrified by this discovery, I take a deep breath and I dive into the icy putrid waters that open the piece; I come across another sad discovery that in fact this half hour is made up only of ambient sounds, almost like one of those bookshop cd’s of the type “sea sounds”; troubling realization that destabilizes even more the hearing of this controversial work. Unfortunately I would not recommend this album to a much wider audience, but only to those who like extreme death metal sounds, only to be disappointed by the epilogue ambient. I do not know, hard to judge an album so psychotic, but on the other hand, by such a controversial guy like Christian Kolf, what could we expect? (Francesco Scarci – Translation by Sofia Lazani)

(Zeitgeister)
Rate: 65

Spuolus - Behind the Event Horizon

#PER CHI AMA: Space Funeral Doom, Helllight, Septic Mind
Il mio primo problema nel dover recensire questo cd è stato dover capire quale band stavo ascoltando, perché sulla copertina della release, non vi era alcun logo o titolo; fortunatamente girovagando per il web, sono riuscito ad individuare il tutto, grazie al contenuto cosmologico (la scienza che studia l’universo) riportato nel booklet. E cosi quello che ho fra le mani è l’introvabile (solo 500 copie stampate, che onore!) debut degli ungheresi Spuolus, che con il loro atmosferico black doom, affrontano i temi legati all’universo. Affascinanti a dir poco, perché i nostri (dovrei dire il nostro, visto che si tratta di una one man band), si spingono con le loro liriche verso concetti legati ai buchi neri e alla previsione della relatività generale. Intriganti le lyrics, altrettanto i suoni che fuoriescono da queste quattro infinite tracce, che raggiungono quasi l’ora di musica. La release si apre con i quasi venti minuti di “I Stand Nowhere” e non posso far altro che calarmi in questo viaggio spaziale alla ricerca dell’”orizzonte degli eventi”. Un synth apre il tutto delicatamente, per lasciar ben presto posto al misantropico e litanico riffing di Szabó Void, unico membro della band. La song è atmosferica, grazie al massiccio uso di synth, inquietante per quel suo incedere tipico del funeral doom, angosciante per le sue funeree ambientazioni, ma mi piace, non lo nego. I suoni apocalittici penetrano le mie vene con quel loro ossessivo e asfissiante incedere; dopo quasi dieci minuti, finalmente la song cambia ritmo, modificando il proprio giro di chitarra e rimango ancor di più catalizzato dalla morbosità dei suoni, dall’aria totalmente priva di ossigeno. Beh chiaro, ci stiamo spingendo verso i confini della nostra galassia, e i suoni che percepiamo finiscono per assumere connotati quasi alieni, ma non abbiate paura ad avvicinarvi agli Spuolus, potrebbe essere una interessantissima esperienza extraterrestre. La conferma della unicità della proposta musicale del combo magiaro, ci arriva anche dalla seconda titanica “Your Defencelessness”, che riprendendo i suoni della traccia posta in apertura, continua con suoni enigmatici, talvolta tribali, spaziali, unici, sinfonici, mi conducono oltre le “colonne d’Ercole” della galassia e qui la percezione extrasensoriale si fa più profonda. Le musiche, mantenendo quella melodia di fondo, ci mostrano angoli galattici sconosciuti. E il mio viaggio in compagnia di E.T. prosegue alla scoperta di suoni non di questo mondo, narrati in modo oscuro dal buon Szabó. Il funeral finisce per fondersi con l’avantgarde e la follia di act nordeuropei; il growling si trasforma in un cantato pulito sofferente, sono quasi condotto in uno stato catatonico. Forse gli alieni stanno manipolando la mia mente, perdo la coscienza, non capisco più dove mi trovo, cosa succede, i suoni continuano a scorrere come arcobaleni in cieli costellati da sette lune e quattro soli. Il mio viaggio continua e i miei sensi percepiscono cose che mai prima d’ora erano state provate: suoni sinistri, colori indecifrabili e sensazioni inusuali mi si parano davanti. Quando ritorno sul pianeta terra la sensazione è quella di far fatica a respirare, forse il ritorno all’ossigeno mi dà un po’ alla testa ma pian piano mi riabituo alla nostra atmosfera. Un viaggio unico, ma forse non da tutti affrontabile quello in compagnia degli Spuolus. Intergalattici! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85

Lustre - Serenity

#PER CHI AMA: Black Ambient, primi Burzum
“Serenity” rappresenta l’EP di debutto datata ormai 2008, degli svedesi Lustre, one man band capitanata da Nachtzeit (Mortem Parto Humano, ex-Durthang, ex-Life Neglected, ex-Hypothermia). Due song per poco più di 21 minuti che ci mostrano luci e ombre di questo enigmatico personaggio, che comunque si è poi fatto conoscere con altri lavori assai interessanti, come “Night Spirit” e “A Glimpse of Glory”. L’avvio è affidato a “The Light of Eternity”, song che senza ombra di dubbio alcuna (e sfido chiunque ad affermare il contrario), si ispira a “Hvis Lyset Tar Oss”, del buon vecchio Burzum, nella sua versione più ipnotica: incedere lento, riffing ossessivo e ripetuto all’infinito, suggellato dalle strazianti vocals corrosive del factotum Nachtzeit. I 13 minuti della opening track poggiano interamente sul lavoro pesante dei synth accompagnati da liriche portatrici di naturistica oscura spiritualità, che alla fine si insinuano nel nostro cervello e ci spingono verso una sorta di abbandono onirico, che si concretizzerà nella successiva “Waves of the Worn”, traccia costituita da un mistico sintetizzatore che mi lascia presagire fin da subito, che per tutta la sua durata si muoverà su queste coordinate. E difatti non mi sbaglio: un’onda sinuosa attraverso le mie orecchie, mi spinge definitivamente verso il sonno più profondo. Difficile poter giudicare un cd con pochi minuti a disposizione, tuttavia mi sento di promuovere appieno la proposta musicale dei Lustre, in attesa di avere fra le mani i full lenght della band. Onirici! (Francesco Scarci)
 
(Self)
Voto: 65

Movimento d'Avanguardia Ermetico - Stelle Senza Luce

#PER CHI AMA: Depressive Black, primi Burzum, Lantlos
Devo essere sincero ed ammettere d’esser stato inizialmente affascinato da questo cd esclusivamente dal nome mistico della band e dal titolo della release. Poi l’ascolto ha fatto il resto. Eh si, perché quando “Stelle Senza Luce” apre le danze, ecco trasportarmi in un vortice senza speranza, in una strada senza uscita, catapultandomi d’improvviso in una vita senza senso. Questo è quello che ho respirato fin dalle note dell’iniziale “Decade di Isolamento e Aristocratico Distacco”, song che ci consegna finalmente una grande band italiana dedita ad un suicidal black metal, dalla forte vena malinconica. Il riffing zanzaroso eseguito con grande maestria, ci riporta ai gelidi boschi norvegesi, dove era solito trascorrere il suo tempo, in totale solitudine, il buon Varg Vikernes (Burzum). E proprio dalle sonorità del conte norvegese, i nostri traggono un po’ della propria ispirazione, senza tuttavia tralasciare richiami alla tradizione black depressive svedese (primissimi Katatonia e primi Shining). Tutto questo per confermarvi che il debutto della band italica, per quanto sguazzi all’interno di sonorità già proposte ampiamente nell’arco dell’ultimo ventennio, mostri una già carismatica personalità dei nostri, che emerge all’interno di questi cinque lunghi inni, dove a scorribande di glaciale black metal old school, si possono ritrovare frangenti atmosferici al limite del psichedelico (ascoltare la “liquida” “Ritorno alle Porte dell’Essere”) o aperture melodiche di gran classe (meravigliosa l’apertura di “Spazi Remoti di Abissi Interiori”), con delle vocals che urlano tutto il loro dissapore. Sono entusiasta dall’ascolto di questo cd (cosi come era avvenuto per i debutti di Mete Infallibili e Kalki Avatara, a dimostrare che le grandi band di black d’avanguardia non si ritrovano solo in Francia (Deathspell Omega, Blut Aus Nord e Pensees Nocturne) o in Germania (Lantlos), ma che anche in Italia esiste un interessante movimento nell’underground. Brava anche la russa Kunthauch a scoprire questi talenti; ora a voi il dovere di dare un ascolto a questo Movimento d’Avanguardia Ermetico. Mistici! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 80

martedì 17 maggio 2011

Folge Dem Wind - Inhale the Sacred Poison - English

#FOR FANS OF Black Avantgarde, Fleurety, Deathspell Omega
I would have to admit now that, France has become a forge for talented black metal bands; there is no use to deny the evidence, but Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Alcest, Pensees Nocturne, Les Discrets (and thousands of others) all come from the country of the much hated cousins and even today I have to surrender before the clear superiority of those Folge Dem Wind and place them among the most talented bands from across the Alps. After having done this large introduction, I can also say that I have been following the quintet coming from the unknown Montgeron, since their debut EP, "Hail the Pagan Age", and since then the band have struck me for their dark and evil sound, which thus emerged more strongly in the first official release, but in my opinion, only with this remarkable "The Sacred Inhale Poison” reaches the peak of genius. And they do so from the beginning with the morbid title track which mounts through black sounds, avant-garde and psychotic influences, throws us into a whirlwind of insane madness with its 7 minutes and continues. With the following "... Of Blood & Ether", their music, while revealing the very dark black roots, leads us to walk through territory which is difficult to be explored by black groups. For sure we're not in front of the schizoid proposal of the Norwegian Fleurety or in front of the disruptive class of the aforementioned Deathspell Omega, but honestly some harmonic choices, some rhythmical dissonances, the constant presence of murky atmosphere (listen to "Grey Behind the Veil") and the search for intimate fragments, they merely confirm their enormous potential. We've already mentioned the third track, but I would to cite to you the wonderful prologue that has certainly little to do with metal music (who mentioned Jazz?) and this is precisely the winning point of Folge Dem Wind: they savagely attack us with their ruthless guitar riffs clearly of Nordic black origin and then in the complicated gait of the song, they know how to drive in the dark mazes of their sick mind, with accomplices also the heartrending vocals of Kilvaras. I want to make a further introduction to you: "The Sacred Inhale Poison" is not a work of immediate assimilation, you will definitely need various diverse hearings to be able to assimilate it, to be able to appreciate it, but when your ears will get used to it, it will be very difficult to do without it, because it has that quid, the characteristic that only big band capable of daring what no one else dares, able to create something lasting and I am convinced that they have these features. Exceptional song "…Of Reptilian Fires", that in itself, contains all the refined elegance of brutality and experimentation, and the ineffable simplicity in handling long pieces with great ease. The release spins with pleasure between dazed guitar lines, inhuman scream, post metal inserts, fragments of crazy jazz, becoming the joy of those who, like me, are in constant and frantic search of sounds beyond the common and those like the ones by Folge Dem Wind, surely contain something magical, esoteric, dreamy and deeply evil. Seducing! (Francesco Scarci – Translation by Sofia Lazani)

(Code 666)
Rate: 75

Vardlokkur - Med Døden Til Følge

#PER CHI AMA: Black Epic, Enslaved, Immortal
La prima traccia di questo album ci introduce nei meandri di quello che potrebbe benissimo configurarsi come un malato orfanotrofio abissale. Si, perché ci si sente soli mentre si ascolta. L’assenza di speranza colpisce asettica dalla prima nota. Sembra strano, almeno all’orecchio dei puristi del genere, iniziare un’opera di black metal con le tastiere, suona paradossale. D’altronde l’incarnarsi come anti-tutto è stata fin dagli albori prerogativa di questa musica (ricordate cosa c’era scritto nel libretto di "Nightwing" dei Marduk? “Non sono state utilizzate tastiere per questo album”). A parte ciò, i Vardlokkur si identificano con un buon gruppo black, tematicamente formatosi a cavallo tra il periodo purista (per intenderci: quello delle registrazioni violente autoprodotte esaltate con fierezza dal suono ‘marcio da cantina’) e le sonorità del nuovo millennio, veicolate prevalentemente da una melodia meno graffiante e più orecchiabile. Pur non avendo, almeno a mio avviso, una personalità individuale, "Med Døden Ril Følge" riesce comunque a farsi apprezzare proprio per la caratteristica di essere ‘contaminato’ dai multiformi rimandi ai più conosciuti mostri sacri del black. Si ritrovano i passaggi tipici degli ultimi Immortal, le violenze estreme dei Gorgoroth, la voce pregnante dei Darkthrone… Un cocktail da trangugiare in un solo sorso per appassionati. L’ho molto apprezzato, pur non essendo riusciuto a identificare nulla di nuovo. Tralasciando le tastiere (scusate se insisto su questo punto, ma sono cresciuto con un’idea atavica del black metal), l’apogeo di quest’opera risulta essere la seconda traccia, "Morituri Te Salutant", vero manifesto di notturno nichilismo. Al suo interno si trovano (quasi) tutti i passaggi conosciuti di batteria e piatti nell’ambito black, con un ghiacciato rimando alle chitarre dei Taake, che da sole valgono tutto il pezzo. Cosa posso dire? I Vardlokkur hanno tutte le carte in regola per diventare quello che altri sono diventati nel panorama black metal. Non devono tuttavia essere considerati come una punta di riferimento. Almeno per ora. La costanza si vede nel tempo. (Damiano Benato)

(Det Germanske Folket)
Voto: 70

Abortus - Process of Elimination

#PER CHI AMA: Death, Thrash
Gli Abortus provengono da Sidney e hanno all'attivo un debutto discografico autoprodotto, risalente al 1999, dal titolo "Judge Me Not". Il secondo album "Process of Elimination" ci presenta una band dal suono deciso, potente e dalle venature lievemente old fashioned. Un death-thrash molto aggressivo è ciò che ci propone il quartetto australiano, una fucina di brani spaccaossa che risente dell’influenza del vecchio thrash americano piuttosto che delle oramai sfruttatissime sonorità svedesi. Qualche eco del death metal europeo lo si trova, tuttavia, nel riffing veloce e quando arriva "God Vision", fa la comparsa una contaminazione black che sembra quasi un tributo agli Impaled Nazarene. "Abort Us", "Revenge Now Sworn", "Redemption", "Sadist-Fy"... tutti i brani sarebbero degni di nota per la perizia tecnica con la quale vengono eseguiti e per il coinvolgimento che provocano nell'ascoltatore, complice un lavoro fantasioso sia nel drumming, sia nelle parti di chitarra, le quali ogni tanto ci regalano qualche assolo. L'unico punto che oscura un po', non il valore ma l'appetibilità commerciale, di questo "Process of Elimination" è da ricercare probabilmente nel suono un po' sporco ottenuto in studio, ma questa è una caratteristica che sottolinea solamente l'intento della band di rimanere grezza e selvaggia. Consigliati. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 70

sabato 14 maggio 2011

Defect Noises - Pure Sickness

#PER CHI AMA: Djent, Death Groove, Meshuggah, Cynic, Periphery
È il genere del momento (grazie ad act più famosi quali TesseracT o Periphery), se proprio di genere vogliamo parlare, o forse lo potremo definire un fenomeno musicale. Sto parlando ovviamente del djent che, per chi non lo conoscesse, è in realtà una corrente caratterizzata dal modo di suonare le chitarre, super distorte, con accordature super ribassata e tecnica “palm muting”; tutto chiaro no fin qui? Si insomma, avete presente il sound dei Meshuggah, con le sue ritmiche nevrotiche e sincopate, l’ampio uso di poliritmie e le chitarre a 7, 8 o addirittura 10 corde? Bene, questo descrive il genere di cui sto parlando e quello che ho fra le mani è un lavoro, figlio di questa scuola e Marian Gradinarski incarna alla grande questa filosofia, con una chitarra a 10 corde e un sound poliritmico che penetra le profondità della nostra psiche fino a condurci al delirio. “Pure Sickness” parte alla grande con “Suffering System”, song che mostra già la disumanità di Marian con la sua “arma” contundente nelle proprie mani: virtuosismi da paura si intrecciano infatti con un sound estremamente dinamico e ricco di fraseggi, cambi di tempo e digressioni in territori a noi sconosciuti, mantenendo come unico filo conduttore la ritmica devastante di fondo (opera di un drumkit), che ci fa capire che ci troviamo in territori di extreme metal. Sono immobilizzato, stordito, affascinato da cotanta energia lavica prodotta dalla 10 corde di Marian, ipnotizzato da allucinanti giri di chitarra, arzigogolati fraseggi che non sembrano umani, come se un alieno si fosse impossessato di questo straordinario strumento e lo suonasse in modo a noi misterioso, quasi incomprensibile, ma meravigliosamente piacevole. Sono rimasto fin da subito sorpreso dalla capacità di catalizzare la mia attenzione con dei suoni pazzeschi e pur non essendoci una voce a deviare ogni tanto la mia attenzione, continuo imperterrito a seguire le evoluzioni di questo axeman mostruoso, che attraverso le sue funamboliche scorribande (“Crawl Back In”, “In the Void the Stones are Turning”), riesce a farmi digerire un sound che probabilmente, fatto in altro modo, resterebbe sullo stomaco a molti. La tecnica di Marian è impressionante, il suo spettro di influenze il più vario con il sound a la Meshuggah che si intreccia all’irrazionalità e imprevedibilità dei Cynic, il tutto suonato con la tecnica dei Dream Theater. Ho scritto ovviamente le prime tre band che mi sono venute in mente immediatamente, ma sarebbe assai riduttivo limitare il sound di questo incredibile lavoro, che ha forse la sua unica pecca di non avere un vocalist che ogni tanto possa urlare nel microfono, perché l’unica mia perplessità, è che qualcuno si possa stancare facilmente di una release completamente strumentale. Non di certo il sottoscritto, che sta usurando la sua copia e che forse presto si troverà costretto a richiederne un’altra. Grazie Marian per avermi aperto le porte ad un’altra dimensione con il tuo sound e con la tua chitarra, che con i suoi micidiali riverberi o delay, ma sempre pregna di brutalità, mi ha saputo conquistare e condurre con te là, in mezzo all’universo dove solo melodie aliene trovano spazio. Da ascoltare obbligatoriamente! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85

Fragile Art - Axiom

#PER CHI AMA: Swedish Death, Soilwork, In Flames
Dopo colpevole ritardo, ci siamo resi conto di aver lasciato indietro un nuovo gruppo abbastanza interessante, che proviene dalla Russia, i Fragile Art. Il loro primo cd è datato 2007, registrato per la CD-Maximum intitolato “Axiom”. La release in questione è composta da 10 track, mai troppo lunghe, che quindi scorrono via piacevolmente. Il lavoro ci sorprende subito per l’uso notevole e quasi assiduo di synth, che fanno percepire i brani molto diversi dal solito melodic death in voga. “Axiom” si apre con “From Blind Love To Wild Hate”, brano che sorprende e aggredisce subito il nostro udito, sorprende perché c’è una inaspettata parte di synth e poi inizia con una batteria parecchio aggressiva, come anche i riff di chitarra, che suonano distorti e aggressivi; una ottima partenza direi perché il pezzo suona davvero interessante specie nelle parti di “musica elettronica“ (spero la band non si offenda). Il tutto scivola via piacevolmente e non abbandona mai quell’atmosfera poeticamente aggressiva che aveva creato all’inizio. Altra citazione d'obbligo è per “Not Dead Not Alive “ che attacca subito forte, aggressivo e cattivo con la batteria che sembra correre su un binario immaginario di potenza e frenesia. I riff di chitarra nella loro distorsione instillano in chi lo ascolta un'alta dose di adrenalina. La title track ha un inizio molto violento, con la doppia cassa della batteria che arriva in gola. Le chitarre offrono riff molto veloci e distorsioni che non stonano mai l’ascoltatore. Si fa notare la parte di pad, un bel arpeggio che si amalgama alla grande con la ritmica. Il tutto suona molto piacevole, ideale per un bel viaggio on the road. Il pezzo non perde mai il suo mordente iniziale, anzi ad un certo punto va anche in un crescendo di armonie distorte delle chitarre. Non menziono particolarmente la voce con il tipico growling del death metal. Il cd nel suo complesso mi ha particolarmente colpito in positivo, possiamo decisamente ritenerlo un buon punto di partenza, anche se suggerirei alla band di concentrarsi particolarmente sulle parti elettroniche e di synth, che contribuiscono a dare quella caratteristica distintiva e ricercata al cd, senza per forza ammiccare a gente del tipo di Soilwork o ultimi In Flames. Per concludere, mi sento di consigliarne l’acquisto perché la musica proposta dai Fragile Art è valida ed interessante, vi terremo sott’occhio, il margine di crescita è ampio, ora sta solo a loro maturare! (PanDaemonAeon)

(CD-Maximum)
Voto: 75

Indian Fall - Seasons in Equilibrium

#PER CHI AMA: Black Symphonic, Dimmu Borgir
Devo essere sincero, ad un primo ascolto quest’album non mi ha entusiasmato molto. Mi ha deviato sicuramente da “Demonologic Universe”, quasi un copia e incolla del sound dimmuborgiano, una traccia che non avrei certo sistemato in apertura di lavoro. Per il resto, a parte qualche chiara caduta in prevedibili riff death, ammetto che mi sono davvero ricreduto in ascolti successivi. Qui stiamo parlando di un’opera di qualità, di quel metal di classe che oggi è qualità rara. Tracce ben strutturate, giusto equilibrio di potenza sonora e melodie avvolgenti (che sia proprio un caso il titolo “Seasons in equilibrium”?). Siamo di fronte a quello che io ho sempre definito ‘metal ragionato’, un simulacro di suoni che creano atmosfera senza estremizzare con vuota tecnica (comunque molto presente e dalla magnifica resa), un susseguirsi di tracce che mutano, si evolvono in sintonia senza essere ripetitive. Per necessaria coerenza, anche la voce presenta equilibrio, modulata in profondi growl e graffianti screaming a seconda dell’andamento delle canzoni. Voce pulita nelle sezioni intermedie. Si tratta di sacralità. Pura e semplice. Si tratta delle stesse sensazioni che ho provato quando ho ascoltato per la prima volta gruppi come Septic Flesh e altri pionieri del metal mitologico. Gli Indian Fall evocano un mondo antico, primordiale, incontaminato. Raramente sono riuscito a trovare una qualità del genere, tralasciando ovviamente la produzione dei nomi blasonati. L’unico elemento che purtroppo stona, come ho già riferito, è la presenza (per fortuna non ‘in’ tutte le tracce e non ‘per’ tutte le tracce) delle tastiere alla Dimmu Borgir post “Puritanical Euphoric Misanthropia”. Pur non essendo un album di black metal, concedetemi una digressione a tema: dirò una bestemmia per molti, ma questi Indian Fall sono nettamente superiori ai nuovi Dimmu, e non hanno affatto bisogno di imitare le tastiere di chi fatica a raggiungere (o ‘tornare’, in questo caso) alle vette di un tempo. Gli Indian Fall sono un regalo dell’universo sonoro. Un piacere per le orecchie e per lo spirito (la presenza di Dan Swano alla consolle è poi un’ulteriore conferma di qualità). Confido possano in futuro aumentare il contesto ‘atmosferico’ delle loro opere, e liberarsi di pesanti orpelli di cui non hanno bisogno. (Damiano Benato)

(Self)
Voto: 85

Fuelblooded - Off the Face of the Earth

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Testament, Soilwork, Darkane, Trivium
Cosa succede quando lo swedish death si miscela con il thrash metal americano? Ne esce un intruglio che, magari non offrendo nulla di particolarmente innovativo, riesce con il proprio mood ad entusiasmare non poco gli ascoltatori. Questo per dire che gli olandesi Fuelblooded sono promossi a pieni voti nel proporre questo death thrash melodico che pone le sue radici di brutalità, pesantezza delle ritmiche e melodia nel thrash “made in USA”, sound che ha reso grandi i Testament e celebri i Trivium, ma che comunque, nel crunchy refrain delle chitarre, nell’alternanza delle vocals (growling e cleaning) e nella complessità dei suoni, paga sicuramente dazio allo swedish sound dei monolitici Darkane, degli In Flames (per quelle aperture estremamente catchy) e degli Scar Symmetry (per i chorus), su tutti. Si insomma, come spesso accade nell’ultimo periodo, nulla di nuovo sotto il sole, però se quello che ne salta fuori è decisamente interessante perché non citarlo o addirittura premiarlo. Quindi perché non dire che il quintetto dei Paesi Bassi suona proprio bene, pur non inventando nulla di nuovo, ma solo esplorando territori già triti e ritriti, non posso che ammettere la bontà della proposta dei “tulipani”. Agevolati poi da una produzione cristallina, certamente all’altezza, opera di Jonas Kjellgren (The Absence, Carnal Forge), i nostri sfoderano la prova della vita a distanza di quattro anni dal precedente “Inflict the Inevitable”. Il disco parte forte con due robuste e dinamitarde songs, per poi assestarsi su binari molto più melodici con “When Passion Dies” e “Recipe for Demise”, dove sopra a una ritmica bella pesante, ma pur sempre melodica e controllata, si assesta una voce quasi in stile primi Metallica e con un assolo da spavento. È l’headbanging qui a prendere il sopravvento e a spingermi a dimenarmi come un pazzo nell’ascolto di questo lavoro. Si prosegue su questa strada e la proposta dell’ensemble mitteleuropeo continua a mantenersi su livelli medio alti, con le proprie radici comunque sempre ben affondate nel thrash metal, offrendoci altre gemme di musica estrema in “Pandemic Persecution” o nella lunga cavalcata “The Cult of Ego”, dove la lezione dei gods svedesi Darkane viene appresa alla grande dai nostri nuovi eroi. Il sudore gronda ancora dalla mia fronte, ma mi sento soddisfatto per questo sfogo dato dall’ascolto di “Off the Face of the Earth”, ennesimo buon lavoro targato ancora una volta My Kingdom Music. Bella scoperta, non c’è che dire! (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 75

My Darkest Side - Death Begins

#PER CHI AMA: Deathcore, Lamb of God, The Black Dahlia Murder
Il nome di questa band, My Darkest Side, mi ha immediatamente fatto riecheggiare nella mente quella degli statunitensi Darkest Hour, quindi quello che mi aspettavo di sentire era sicuramente qualcosa di simile al combo di Washington e cosi sono stato in parte accontentato. Il gruppo capitolino propone infatti un deathcore dalle forti influenze americane ed il risultato non è niente male anche se di originalità, come ben potete immaginare, non v’è alcuna traccia. 4 songs di “Roman Fuckin Metal”, come ribattezzato dai nostri sul cd, capaci di farci esplodere le casse dello stereo con il loro incedere prepotente e sfrontato. La rabbia del quintetto romano deflagra già dall’iniziale “My Sixth Sense”, song dal riffing nervoso e dal mood grooveggiante, oh yeah! Mi piacciono i nostri, spaccano che è un piacere, aiutati anche in sede di registrazione da una produzione veramente all’altezza che ne esalta le qualità, quasi ci trovassimo di fronte ad una band di veterani. Che sia l’inizio di una nuova era per il metalcore nostrano? Mah, nel frattempo spariamoci “Spawning Blood” e “Altar of Star’s Light” con le loro velocità frenetiche e schizoidi, ma che nel loro galoppare, sono in grado di regalarci sprazzi di melodia, furia incontrollata e una tecnica davvero invidiabile che fa dei nostri una grande promessa per il futuro del nostro paese. Se ci fossero state più tracce, magari il vosto sarebbe stato più alto, per ora i My Darkest Side si accontentino di questo e continuino a lavorare in questa direzione, il successo potrebbe essere davvero assicurato. Bravi, bella scoperta! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65