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domenica 30 gennaio 2011

Glacial Fear - Equilibrium Part I


"Equilibrium Part I" rappresenta il ritorno di una delle band metal italiane più longeve: un EP di 4 pezzi che segue a distanza di 2 anni, il precedente “Filthy Planet”. Il sound dell’ensemble di Catanzaro continua la personale rivisitazione del proprio sound, aprendo a nuove frontiere metalliche. Il cd è aperto da “Black Mountains”, song molto vicino alle ruvide sonorità degli Slipnokt degli esordi, mantenendo quindi uno stile old school che non potrà far storcere il naso ai fan dell’act calabrese. Ritmiche sempre massicce, suoni corrosivi e talvolta arzigogolati di Meshugghiana memoria uniti al growling malvagio di Giuseppe Pascale, caratterizzano la traccia. La successiva “Technicolor Society” ha un approccio più soft, con un accenno melodico e oserei direi malinconico nelle sue linee di chitarra con un’eccellente prova da parte del batterista. L’EP non lascia tregua e scorre via veloce con la terza “Control” dove accando ai grugniti di Mr. Pascale compare anche un clean chorus, mentre la batteria continua a sferrare micidiali attacchi ai nostri padiglioni auricolari e le chitarre che si susseguono in tecnici, quanto mai disarmonici, riffs di chitarra in un funambolico esplodere di violenza. La conclusiva “New Noise” non è altro che una cover dei Refused, band sconosciuta ai frequentatori di queste pagine, ma assai famosa nel mondo hardcore, che vi potrà garantire quattro minuti e trenta di furore, headbanging sfrenato e colate di groove, dettate da un cantato che riesce arriva a sfiorare una impostazione rap/hip-hop. Non sono certo un amante di simili sonorità, quel che è certo è che i Glacial Fear ancora una volta sono in grado di stupirci con un amalgama di sonorità ruvide, psicotiche e non del tutto immediate. Attendo ora con curiosità il nuovo cd, per capire verso quali lidi i nostri possano ampliare la prossima volta i propri confini. Malsani! (Francesco Scarci)

(Do It Yourself Conspiracy)
Voto: 70

Aneurysm - Archaic Life Form


“O la va o la spacca” devono aver pensato gli Aneurysm, una delle band più sottovalutate e sfortunate della storia metal nostrana, dopo aver confezionato questo loro nuovo terzo lavoro, dove i nostri questa volta l’hanno combinata davvero grossa. No, non temete, non prendetela con l’accezione negativa che di solito questa affermazione può avere, bensì estremamente positiva. “Archaic Life Form” rappresenta infatti un bel balzo in avanti infatti rispetto al precedente “Shades”, che non era affatto male come album, ma che mostrava ancora qualche lacuna in chiave compositiva da parte del combo veneto. Con questa nuova release invece, targata Kreative Klan Records, il quintetto veronese sfodera una prova brillante, sviluppando la propria musica su un concept album ambientato in mondo futuristico in cui l’essere umano si è estinto e le macchine popolano il pianeta, clonando l’uomo per studiare le proprie origini ma, scoperta la debolezza dei sentimenti, il progetto viene abortito. Certo io ne ho riassunto drasticamente i contenuti, ma vi garantisco che i testi si rivelano assai interessanti, cosi come la proposta musicale del resto. Il sound dei nostri, poggia costantemente su basi techno thrash fin dall’iniziale “The Clear Obscure”, che apre con una ritmica schiacciasassi, per essere interrotta solamente dalle vocals di Gianmaria Carneri; la produzione è decisamente bombastica, cosa che si rende assolutamente necessaria per rendere maggiormente fruibile l’ascolto dei campionamenti di varia natura inseriti, capaci di rendere il risultato finale assai appetibile e vario. La song risulta quindi una mistura tra aggressività, forti dosi di melodia, un elevato tasso tecnico e un sacco di stacchi cyber metal; se dovessi fare un paragone, mi verrebbe da dire che i Nevermore incontrano gli Anacrusis, suonando in stile Fear Factory, non male vero? Andiamo oltre con “The Missing Element”, dove un plauso va fatto innanzitutto alla voce di Gianmaria, migliorata enormemente rispetto al passato, dotata di una personalissima timbrica vocale, mentre la musica è un flusso di vibranti emozioni caratterizzate dal costante dualismo tra potenza e melodia. “Agent One” mostra i nostri suonare in una chiave più cyber/industrial con una serie di elementi disorientanti di sottofondo capaci realmente di trasportarci con la mente in questo immaginario mondo del futuro, mentre la sezione ritmica picchia come un ossesso e le asce sfoderano spietati killer riff. Intriganti, aggressivi e creativi, questa nuova veste degli Aneurysm mi piace un sacco e le successive “Last Farewell” (dove compaiono tra l’altro reminiscenze di scuola Meshuggah) e “Angel” (song assai malinconica, aperta da nostalgici tocchi di pianoforte e la voce di Gianmaria non può che ricordare il buon Serj Tankian) continuano a stupirmi per la loro sofisticata e intelligente personalità. Il suono di una sirena annuncia “Anomaly” e qui gli echi musicali ci riportano inizialmente ai The Kovenant, ma poi la band intraprende il proprio personalissimo percorso infarcendo la song di “anomalie”, ossia l’effetto di salto del disco come se fosse sporco, tanto da indurmi a controllare più volte se la polvere si sia depositata sulla lucida superficie del cd, ma si tratta solamente di uno scherzo giocato dall’ensemble per obbligare la mia mente a ripetere tutti questi loop anomali. È poi la volta di “Postulates” una song che viaggia a cavallo tra reminiscenze thrashcore e il suono cibernetico che caratterizza gli Aneurysm del 2011. Chiudono il cd “The Great System” e “Progeneration/Deactivation”, che sanciscono l’incredibile livello di maturità tecnico-compositivo raggiunto da questa nuova release. Non far proprio questo lavoro sarebbe uno scellerato delitto quindi datevi da fare e fatelo vostro. La sorpresa di questo 2011? Lo spero proprio, intanto in bocca al lupo! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 85

sabato 29 gennaio 2011

Mothercare - The Concreteness of Failure


La Kreative Klan Records, neo etichetta del chitarrista dei Mothercare, Mirko Nosari, esordisce sul mercato discografico proprio con la band del suo proprietario, che finalmente dopo un silenzio durato 5 anni e che ha visto diversi avvicendamenti all’interno della band, torna prepotentemente alla ribalta con un album che si potrà certo accostare ai gods mondiali, sfoderando una maturità artistica mai prima riscontrata. Sia ben chiaro che non ci troviamo di fronte a dei pivellini di primo pelo, ma ad una storica realtà italiana che da quasi vent'anni calca la scena underground. Abbandonate le suggestioni nu metal degli esordi, assoldato un nuovo vocalist a sostituire il defezionario Guillermo Gonzales, prese un po’ le distanze dal thrash/hardcore del precedente “Traumaturgic”, il combo veronese si presenta ai propri fan con un lavoro intelligente, moderno, dirompente che non potrà non conquistarvi per la sua estrema immediatezza, dovuta essenzialmente ad una azzeccatissima miscela di suoni brutali uniti ad una inaspettata vena melodica. Non vorrei depistarvi con la parola melodia, perché all’interno del cd scorrono fiumi di odio nei confronti di una società estremamente corrotta, che si tramutano in arrembanti ritmiche, contraddistinte da apocalittiche atmosfere, in grado come sempre di creare uno stato di disagio e profonda angoscia interiore. Dopo l’intro “The Art of Diplomacy”, esplode forte la rabbia, il furore e la violenza di “The Slow and the Proud March to Conformity”, subito eletto il mio pezzo favorito, dove tra hyper blast beat, ritmiche mozzafiato e rallentamenti in stile “meshuggahiano”, possiamo godere già da subito dell’ottima performance vocale di Simone Baldi, coadiuvato dalle backing vocals di Mirko e Fabiano, bravo a muoversi tra un growling mai troppo esasperato e vocalizzi di impostazione cibernetica. Finito l’headbanging iniziale, mi getto nella mischia con la successiva “To Be or to Sink” che dà l’idea di essere una song più ragionata della precedente, con un tappeto ritmico sempre di notevole spessore, forte anche di una produzione cristallina, effettuata presso i Bunkker Studio e mixata poi ai Kreative Klan Studio, song capace di ammiccare a certe sonorità grooveggianti d’oltreoceano, per poi proseguire in un crescendo di aggressività e tecnicismi, in cui non può non emergere la tecnica disumana dell’ottimo Marco Piran dietro alle pelli. “Ten Easy Lessons”, song interessantissima per il suo testo e le sue dieci semplici lezioni da rispettare, mostra il lato più sperimentale dei Mothercare, con Stefano Torregrossa, preso in prestito dagli Aneurysm, a divertirsi con i synth. Il risultato? Notevole e garantito, con echi di Fear Factory che emergono qua e là fino allo strepitoso assolo conclusivo. Sono senza fiato, accasciato al suolo dalla costante e martellante efficacia di questi sei loschi figuri. “Blessed Be the Useless” conferma la creatività dell’act veneto e la grande voglia di sperimentare, per uscire fuori dagli schemi classici e garantire un prodotto competitivo a livello mondiale. È un destro-sinistro montante che non lascia assolutamente scampo, i Mothercare sono finalmente tornati e più in forma che mai. La dimostrazione è data anche dalle successive “Gateway to Extinction”, in cui basso e batteria si rincorrono in movimenti tellurici spaventosi, con il buon Simone che continua a vomitare odio nel microfono; “Mother” aperta da un basso malato, la psicotica e psichedelica “Phobic”, passando attraverso la pachidermica e sperimentale title track fino alla conclusiva “slipknottiana” “Uncontrolled Hatred”. Decisamente un gradito ritorno; dei Mothercare sentivamo la mancanza e questo “The Concreteness of Failure” placherà questa nostra voglia e colmerà decisamente il gap tra la scena italiana e quella estera. Ben tornati Mothercare, vi stavamo aspettando! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 80

giovedì 27 gennaio 2011

Devar - Alternate Endings


Chi sono i Devar? Sono una band di Bergen, a sud-ovest della Norvegia, formatisi recentemente con un sound “originale e non tradizionale” (come descritto nel loro sito ufficiale), composta da Devar (voce), Ottoegil (basso), Obdsaija (batteria), Aadland (chitarra) e Odland (chitarra), e giunti nel 2009 al loro debutto discografico per la nostrana Code 666. L'album si apre con la (quasi) strumentale “The Siren”, song che si caratterizza per il canto suadente di una sirena tentatrice. L'inizio potente e la voce roca contraddistinguono “H.M.N.”, che ricorda molto il black metal di primi anni '90 per quel suo uso di blast beats: i ritmi si alternano, passando dal più veloce al più lento, con inaspettate influenze rock. Le cose cambiano in “Cold Slither”: qui il ritmo si fa veloce e serrato, a tratti folle, con la voce, nelle parti più rallentate, talmente strascicata che può ricordare vagamente Kurt Cobain nei suoi deliri. Lo stesso ritmo verrà poi ripreso in “...Of My Dead Skull”, invitando la testa a muoversi avanti e indietro, in un headbanging sfrenato. In “Shadow Feline” si può sentire un gioco di chitarre come nella tradizione rock "settantiana", con la litanica voce di Devar che ricorda quella di Marilyn Manson (non me ne vogliano i fan), le atmosfere si fanno più cupe, i ritornelli sono da cantare a squarciagola, i ritmi rallentati, insomma il tutto a rendere questo uno dei brani più adatti per i live. “Scourger” si presenta invece con un inizio di chitarra acustica e un sound che si avvicina più al progressive rock sempre degli anni '70 rispetto al dark metal. Dalla metà in poi dell'album, i suoni si fanno più gravi e la situazione si capovolge, con un inasprimento della ritmica, anche se non può mancare una nota orchestrale, che si può trovare in “Black 6”: solenne, colpisce nel profondo (è la mia song preferita), dal ritmo pacato e con semplici accordi, ma di grande impatto sul pubblico e di grande energia. Non poteva certo mancare anche una certa vena più sperimentale, cosa che caratterizza “The Dirge”: la voce si alterna tra campionamenti vari e urla strazianti, mentre tutto il brano si basa largamente su un tappeto di tastiere che contribuiscono a rendere più oscure le atmosfere, e con qualche sprazzo di batteria e chitarra portate ai massimi livelli. Ricordate il brano “Scourgerer”? Bene, “Watch Them Fly” ne riprende appieno il ritmo e il sound, ma con con un'enfasi maggiore, tanto da sentire il fiatone del cantante alla fine del brano. Senza neppure accorgermene, sono arrivata alla fine dell'album con “In Sanity”, song ideale per un sottofondo in un film thriller, cattiva e dura al tempo stesso. Le chitarre sono lasciate libere di fluttuare e dipingere astratti panorami psichedelici che, con l’apporto appena percettibile delle tastiere, chiudono al meglio questo primo album dell’act scandinavo. Band giovane, ma che promette grandi cose per il futuro: se mai verranno in Italia in concerto sarà sicuramente un'esperienza indimenticabile. Promosso a pieni voti e stra-consigliato! (Samantha Pigozzo)

(Code 666)
Voto: 85

Ancient Dome - Perception of this World


Se mi chiedessero “qual è la percezione di questo mondo che hanno gli Ancient Dome?”, risponderei con un “beh proprio ottimistica non direi”. Non crediate, però, che i nostri abbiano fatto un prodotto triste. Rabbia, energia, forza: queste le mie sensazioni dopo aver ascoltato le tracce del disco. Scopro qui per la prima volta questa band italiana, corro ai ripari e mi ascolto anche il loro, unico, precedente lavoro: “Human Key”. Un bel miglioramento, su tutto il fronte. Questo cd mi piace; mi piace per la carica, l’anima e la grinta che ci infondono. Sono curioso di vedere un loro performance dal vivo. Abbiamo 11 canzoni strutturate partendo dal thrash metal, con qua e là qualche lieve accenno ad altri generi più melodici e techno. Le tracce sono quasi tutte dirette. Batteria martellante, accelerazioni, cambi di ritmo, stacchi seguiti da ripartenze immediate: queste le cose che più balzano al mio orecchio. Niente male le chitarre: i riffoni, le scale e gli assoli sono ben fatti e non buttati lì a caso, solo per far sentire che la band ci sa fare con i propri strumenti. Ho però il dubbio che le chitarre non si sentano come dovrebbero, gli assoli in particolare. Apprezzabile anche il singer, abbastanza personale nel suo operato vocale. A proposito delle parti vocali, ascoltatevi con calma la power ballad “Dream Again”. Sì, va bene, è un lentone, non è il massimo dell’allegria, anzi ha al suo interno una decadenza strisciante che stride molto col resto del disco, ma detto tra noi, a me quelle sezioni vocali piacciono. Testimoniano, inoltre, la volontà del gruppo di uscire dal solito schema compositivo e ciò è decisamente un bene. Trovo nella title track un vero compendio dell’idee dell’album mescolate tra loro in maniera funzionale. La considero come la traccia più riuscita dell’ellepì. Più tirate invece "Predominance” e “Liar”. Le altre song sfoderano un po' meno personalità, cosi come pure le due solo strumentali che rimangono in secondo piano seppur ben eseguite. Ah, una nota divertente la potete trovare nel fumetto, che ha come protagonista la band, all’interno del booklet, ma non ve la svelo, andate a dare un'occhiata voi stessi. Alla fine del platter una certa stanchezza affiora, non per carenza tecnica o compositiva, ma per l'ipertrofia delle canzoni stesse. Qualche asciugatura non avrebbe tolto una virgola alla loro fatica e avrebbe reso il tutto più fluido. Da mantenere totalmente la loro attitudine ed energia. (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 records)
Voto: 70

mercoledì 26 gennaio 2011

Beansidhe - De Mortis Eloquentia


Un fuoco ardente apre il cd dei ticinesi Beansidhe, band che è in giro da più di un decennio, ma che solo ora arriva al secondo tanto sudato EP, autoprodotto. Dopo l'intro scoppiettante di "Meditatio Mortis", ecco esplodere in tutta la sua furia il sound dei nostri, un black death, che nelle linee di chitarra più taglienti ha qualche richiamo allo swedish black dei mitici Dissection, ma che poi nell'incedere ritmico predilige un sound massiccio più tipicamente thrash death americano. Sei tracce che ben poco hanno da aggiungere alle produzioni attuali, per una certa carenza di fondo di idee in primis, ma anche per una certa difficoltà a produrre qualcosa di realmente interessante in un genere, che ormai ha già detto tutto. Anche se le qualità tecniche ci sono tutte per poter far meglio in futuro, qualche discreta idea, capace di donare un tocco di epicità all'intero lavoro (ascoltare "On Bloodsoaked Grounds Grenades They Ate" o "Shifting Samts" tanto per capire) compare qua e là, risulta ancora troppo poco per ritenere "De Mortis Eloquentia" degno di nota, perché sinceramente è ancora tutto in fase embrionale, cosicché non mi sento di andare oltre ad una striminzita sufficienza. Sicuramente le ritmiche assassine o le rasoiate delle chitarre sapranno catturare l'attenzione di qualche sprovveduto metallers, ma non la mia, che dopo quasi 25 anni di militanza, ne ha sentite davvero tante. Forza ragazzi, iniziamo a metterci più cuore in quello che suonate, per tirare fuori dalla melma un genere che presto rischierà di morire. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 60

Souldeceiver - Mankind's Mistakes


Premesso di non aver mai visto una copertina cosi brutta negli ultimi anni, ma soprattutto non riesco proprio a capire cosa sia preso alle nostre band nell'ultimo periodo, tutte alla ricerca di ricalcare sonorità ormai ultra datate nel tempo. Questo, non per dire che i toscani Souldeceiver siano dei brocchi musicalmente, ma per ribadire il concetto che la nostra musica, il metal, per sopravvivere abbia un forte bisogno di rinnovarsi. Il quintetto italico ci prova in ogni modo, già dall’iniziale “Memories of Centuries”, il cui risultato non sarebbe neppure neanche malvagio, ma quante volte abbiamo già sentito simili sonorità? Migliaia. Si prosegue con “Cold Eternity”, song spigolosa che mette in luce un buon riffing di matrice svedese e degli assoli veramente degni di nota, vero punto di forza di questo “Mankind’s Mistakes”, mentre le vocals di Francesco Meo, non brillano certo per energia o personalità nella progressione di questa release. “The Other Side” parte lenta con l’eccellente lavoro alle chitarre del duo Alessio Rossano e Luca Mosti, poi ancora una volta la song entra in un vortice di anonimato da cui sarà ben difficile uscirvi fino alla coinvolgente parte conclusiva, dove le 6 corde dei due axemen salvano la baracca con le loro sciabordate, ma quanto forte è l’eco di Chuck Schuldiner e soci in questa song, cosi articolata ma non del tutto riuscita. Anche “Automa X” e le successive songs cercano di ricalcare le gesta dei nostri paladini Death, ma mai nessuno (anche se confido fortemente nei Decrepit Birth) hanno mai colto nel segno. Voglio spezzare però una lancia a favore di questi Souldeceiver che tanto hanno studiato la lezioni dei maestri statunitensi, ma che ancora faticano a metterla in pratica: cercate di dare alla vostra musica una maggiore semplicità, non è di sicuro infarcendo i brani di giri arzigogolati di chitarra o l'essere ultra tecnici alla morte che si va a toccare il cuore dei fan, ma cercando di essere se stessi e lasciar parlare la vostra anima attraverso i vostri strumenti… però per favore cambiate le corde vocali del vocalist vero e proprio punto debole della band. La strumentale “Alchemical” (da panico la parte centrale e l’assolo conclusivo degno dei migliori Death di “Human”) ci fa prendere fiato prima dell’assalto conclusivo di “Terror of Knowledge”, la traccia dove i nostri sembrano osare maggiormente, alla ricerca di un proprio cammino, che sembra destinare i nostri sul percorso giusto. Un voto il mio, carico di fiducia per la difficoltà della strada intrapresa e consapevole che la band farà di tutto per concedersi maggiore libertà compositiva cercando di liberarsi dalle catene che li tengono legati ai canoni di un genere che invece dovrebbe essere rappresentato da pura libertà di espressione, cosi come il buon vecchio Chuck avrebbe desiderato… (Francesco Scarci)

(SG Records)
voto: 65

lunedì 24 gennaio 2011

The Archetype - The Fallen Grace


C’è personalità da vendere in questa nuova band proveniente dal suolo italico, ma forse in questo caso sono i mezzi a mancare ai nostri per azzeccare il colpo dell’estate. I The Archetype sono un quintetto proveniente da Firenze che ha tutte le carte in regola per fare bene: si parte con l’intelligente “The Fall”, song breve, diretta, melodica che stampa immediatamente il suo chorus nelle nostre menti, anche se le clean vocals non sono del tutto convincenti. Si prosegue con “Parasites” in cui il growling di Gianluca è molto più piacevole del suo stucchevole cantato pulito, mentre le chitarre disegnano ambientazioni oscure, ipnotiche, figlie di suoni progressive anni ’70 come nell’assolo conclusivo. C’è “Ghost”, ma l’approccio dei nostri non cambia, sempre a cavallo tra un death mai troppo esasperato, suoni decadenti in cui sono sempre le voci pulite a stonare in questo contesto, arrivando alla fine proprio a detestarle e con una batteria non propriamente all’altezza. Arriviamo a metà disco e finalmente le cose sembrano riprendersi con il duo “Ethereal” dal malinconico arpeggio iniziale e dall’andamento tranquillo,quasi da ballad, controbilanciata dalla ferocia di “Blinded by Sand”, la song più tirata dei nostri, probabile retaggio delle origini black/death dei toscani eppure interessante nel suo incedere, commistione di brutalità, melodia ed epicità. L’arpeggio che apre “Twisted Visions” ci lascia trasparire in un qualche modo l’amore che i nostri hanno per gli svedesi Opeth, ma la musica dei gods scandinavi ha tutt’altro spessore e presa: tuttavia l’alternarsi tra momenti intimistici e rabbia elettrica, lascia presagire che questa è la strada migliore che i nostri dovranno percorrere, con un piccolo suggerimento però: modificate il cantato pulito perché è a dir poco molesto per le mie povere orecchie. Chiude “Memoria”, song cantata in italiano che in un lavoro come questo non c’entra assolutamente nulla e denota ancora una volta una certa immaturità stilistica del combo italico. Se seguiti da vicino da qualche etichetta, le potenzialità per far bene in futuro ci sono indubbiamente, per il momento “The Fallen Grace” suona come un prodotto ancora acerbo che ha come grande pregio il concept sulla storia della follia omicida di un uomo e dei suoi controversi pensieri. Non sarebbe dunque il caso di dare un sound più adeguato a delle storie cosi orrorifiche? Attendo fiducioso la maturità di questo promettente combo italiano. Una promessa! (Francesco Scarci)

(Lost Sound Records)
Voto: 65

Cyber Cross - Mega Trip


Secondo lavoro per i patavini Cyber Cross, dopo l’interessante debutto di un paio d’anni fa, intitolato “Ira”. Ebbene, continuando sulla stessa scia del precedente platter, la band di Padova continua a sciorinare suoni che traendo spunto un po’ dall’industrial, fuso con il cyber death, riescono a catalizzare l’attenzione degli ascoltatori, anche se ho la vaga impressione (perché questo è l’effetto che “Mega Trip” ha avuto su di me), che la sua longevità non sia delle più lunghe e che si esaurisca molto in fretta la voglia di mettere il cd nel proprio lettore stereo. Comunque sia, partendo dalla title track, il cd si lascia piacevolmente ascoltare, con un sound mai troppo devastante, pregno di groove e con delle vocals che forse rappresentano il vero punto debole dell’act veneto. Interessanti già da subito le atmosfere da incubo che i nostri sanno creare, peccato per quella voce sguaiata che secondo me non rende giustizia ad un lavoro che forse meriterebbe maggiore attenzione. Si passa ad “Aggressive Side” e l’alone di oscurità che pervade l’intera release si conferma quanto mai solido e macabro, facendomi addirittura arrivare a scomodare un paragone con le sonorità degli svizzeri Sadness. Nella terza “Black Dynamite” mi sovviene un non so che dei Ramstein, anche se la classe dei tedeschi è mille volte superiore ai nostri che di strada ne dovranno fare parecchia per ottenere un po' d’attenzione da parte dei media. “Mega Trip” non è un lavoro malvagio, ma neppure tutto questo concentrato di idee meravigliose che possano indurci a considerare questo lavoro indispensabile per la nostra collezione di cd. Diciamo che il punto di forza di questo nuovo lavoro è senza dubbio la facilità d’ascolto ossia quanto velocemente le songs riescano ad isipregnare nei nostri circuiti neuronali, facendoci sobbalzare dalla sedia in headbangers sfrenati, ma altrettanto veloce sarà la capacità di dimenticare un lavoro che se non per qualche raro spunto di vivacità, dettata dall’adozione di qualche inusuale trovata, non finisce altro che peccare di scarsa personalità. Senza alcun dubbio preparati tecnicamente e coadiuvati brillantemente da un’ottima produzione che ne esalta la potenza dei suoni, i Cyber Cross devono ancora trovare una loro ben precisa identità, tanto è vero che il mio pezzo preferito risulta essere “Noir”, una song che mi sarei aspettato di trovare più su un disco dei Love/Hate piuttosto che su un cd di musica un po' più estrema. Comunque sia, i nostri raggiungono abbondantemente la sufficienza, complice la loro ecletticità di fondo nel proporre la loro musica, capace di passare da sonorità hard rock anni ’80 a pezzi di cibernetica memoria (The Kovenant docet) o altri in cui è più una componente prettamente swedish death metal a farla da padrone (stupefacente il riffing di “Regression”). Suggerimento: chiarirsi un attimo le idee giusto per capire da che parte stare e a chi poter offrire un lavoro come questo, che di sicuro si rivelerà di difficile appeal per gli amanti dell’extreme music e altrettanto complicato da ascoltare per gli amanti di sonorità più classic metal. Complimenti comunque per aver osato, forse troppo! (Francesco Scarci)

(Crash & Burn Records) 
voto: 70

Apeiron - Among the Lost


Avevo già avuto modo di notare le qualità dei nostri con il precedente EP, "The Cruel Crime" e finalmente mi ritrovo tra le mani il loro full lenght d'esordio che mi catapulta nel contorto mondo degli Apeiron. A parte l'inutile intro, si inizia subito alla grande con "Voids of Breath" che mette in luce le qualità tecniche del poliedrico quartetto lombardo e le novità che questa nuova fatica ha da offrire ai suoi fan, che cerca da subito di prendere un po' le distanze dallo swedish death del precedente lavoro (ma la strada per la totale indipendenza rimane ancora lunga). La musica del combo di Vigevano non è proprio cosi facilmente inquadrabile in un genere ben preciso, in quanto nel sound dei nostri convergono un bel po' di contaminazioni dai più disparati ambiti musicali (in "Hendra" ad esempio fa la sua comparsa una chitarra spagnoleggiante inserita in un contesto death). Diciamo anche che "Among the Lost" non è proprio quello che si dice un album di facile assimilazione, data la complessità delle sue trame chitarristiche, della durezza che pervade comunque l'intero lavoro e delle soluzioni abbastanza particolari che si vanno a susseguire nell'intera evoluzione del cd: richiami a la Dark Tranquillity riecheggiano in "Clutches of Despair" (dove compare come guest star Gianluca Melino degli Alligator) e "Scavenging Thoughts". Un indemoniato basso super slappato, degno di una song funky, fa la sua comparsa in "The Last Page"; ma nel disco c'è addirittura lo spazio anche per una ballad, "Through Me You Enter", per melliflui intermezzi acustici o per divagazioni prettamente progressive, dove solo la voce ruvida di Alessio Massara ci tiene ancorati in territori death metal. L'unica difficoltà come già detto, ma forse alla lunga sarà il pregio di questa articolatissima release, è la difficoltà di far propri con una certa immediatezza questi pezzi, ma la cosa permetterà una più ampia longevità nell'ascolto di questa release e nel suo pieno godimento. Bravi e preparati tecnicamente, le vocals si rifanno parecchio a quelle di Mikael Stanne di "The Gallery". In definitiva, sono ben lieto di aver avuto modo di ascoltare l'intricatissimo debutto degli Apeiron, cosi straripanti nelle loro composizioni da stordire le mie frequenze cerebrali e spedirmi direttamente al manicomio. Imprevedibili! (Francesco Scarci)

(Last Scream Records)
Voto: 75

mercoledì 19 gennaio 2011

Benighted in Sodom - Hybrid Parasite Evangelistica


Oggi siamo qui a parlare di un gruppo di ragazzi americani che vengono da Fort Lauderdale (Florida, USA) e si chiamano Benighted in Sodom. Quello che presentiamo è “Hybrid Parasite Evangelistica” full lenght del 2010, che contiene 6 tracce, registrato per la sempre attenta Solitude Productions. Dobbiamo dire che il combo statunitense è parecchio attivo nella fase produttiva, infatti ha sfornato solo nel 2010 ben 6 cd oltre a 5 Ep!!! L’act a stelle e strisce non lo conoscevo per niente, e quando li ho ascoltati sono rimasto inizialmente un po’ interdetto: di certo si può dire che fanno un genere strano, quasi portatore di follia. Il cd al suo primo ascolto suona parecchio lugubre, lento, senza i ritmi sincopati ai quali ci siamo abituati nell’ultimo periodo. In tutto il lavoro possiamo ascoltare un incedere molto lento, quasi ipnotico, con i riff di chitarra mai troppo esasperati, e decisamente scevri da ritmi indiavolati. La voce che ci accompagna (ahimè tra le note stonate del cd) è maligna, malata, arrabbiata, anche se in certi casi penso che non ci stia molto l‘urlato, ma “de gustibus non disputandum est”. L’album si apre con “An Angels Circles the Drain”, che dura la bellezza di 10.53 estenuanti minuti. In questa song ci si imbatte immediatamente nell’aria sulfurea che caratterizza l’intero lavoro che satura fin dalle battute iniziali il nostro respiro. La song suona molto cattiva, senza mai eccedere però in una brutalità fine a se stessa, grazie anche a degli intermezzi acustici assai tranquilli che fanno si che il depressive black del duo americano, si mischi ad un ambient minimalista. I riffs quindi non si rivelano mai troppo violenti, anzi suonano molto puliti e con poche distorsioni ed effetti. “Liquid Flowing From a Slashed” conferma quanto appena detto, grazie ad un inizio con un linee di chitarra molto orecchiabili e ben ritmate, che poi esplodono con il loro incedere cupo e forsennato. Quello che differenzia i Benighted in Sodom da altri gruppi è l’uso di linee armoniche, molto semplici, angoscianti e malinconiche, ma anche decisamente scontate: talvolta si ha quasi la sensazione dell’essere braccati dalla ritmica a tratti psichedelica riscontrabile nel sound dei nostri. “Nightshade & Arsenic” mi ha sorpreso parecchio perché affida il suo incipit ad un assolo di chitarra classica, molto rilassante e orecchiabile; e la chitarra classica continua, tessendo arpeggi non cosi elaborati, ma suggestivi, rendendola l’unica protagonista del tessuto sonoro. Il pezzo suona dolce, lento, sembra quasi che ci culli e rimbocchi le coperte prima di assopirci: molto bello e strano, soprattutto inatteso. Alla fine dell’ascolto del cd tuttavia rimango un po’ con l’amaro in bocca: la band sarà anche produttiva, ma penso sia meglio privilegiare la qualità alla quantità anche perché nulla di nuovo è emerso dalle note di questo poco più che sufficiente lavoro. Il cd a molti alla fine potrebbe infatti risultare noioso o stancante. Rispetto il lavoro della band Floridiana, ma purtroppo non mi ha conquistato, e il lavoro è il classico disco che dopo il primo ascolto non può che finire nel dimenticatoio. Mi spiace ragazzi ma mi attendo molto di più dalle prossime uscite. Per ora una risicata sufficienza può bastare. (PanDaemonAeon)

(Solitude Productions)
Voto: 60

lunedì 17 gennaio 2011

Starlight Extinction - Twilight of Darkness


Ascolto questo “crepuscolo delle tenebre” e mi vien subito da dire che il titolo è una buona anteprima del piatto. Iniziamo con le presentazioni: gli “Starlight Extinction” sono un quintetto trevigiano formatosi nel 2004. Tra il 2007 e il 2008 hanno registrato e quindi dato alle stampe (nel 2009) il qui presente “ Twilight of Darkness”. Si tratta di un album che farei ricadere nella categoria del melodic death metal, quello di provenienza svedese per intenderci. Se pensate che questo tipo di musica non abbia molto più da dire, se credete che sia ad un punto morto, in cui si auto-celebra per mantenersi sempre uguale, forse non avete torto. Ecco però che questo quintetto di bravi musicisti introduce qualche cambiamento, qualche influenza heavy e di altri generi che potrebbero farvi ricredere. Sia chiaro, lo stile è quello convenzionale: ritmiche tirate, voce straziante, mancanza di speranza, atmosfere opalescenti, cupe, appena addolcite da alcuni brevi momenti più melodici. Una bella ventata di sensazioni maligne, inquietanti e disperate, portata da una musica rabbiosa e asfissiante. Quindi: cosa trovare di diverso in questo lavoro rispetto agli altri? Direi una certa eleganza. Oltre alla rabbia, all’aggressività, al pugno in faccia, i nostri si adoperano anche per un’anima di ricerca e raffinatezza, che non si può fare a meno di notare. In questo senso mi han molto colpito le chitarre, in particolare gli assoli, che richiamano molto all’heavy classico e, devo essere sincero, difficilmente rimango insensibile a queste cose. I riffs introducono quegli attimi più luminosi nel complesso oscuro del platter. Bisogna dare atto alla bravura di questi ragazzi, mi pare che tutto sia suonato bene. Come non indicare il lavoro del batterista: ascoltatene il martellamento quasi incessante, specialmente nei passaggi veloci di “High Voltage”. In secondo piano i giri di basso, travolti dal resto. Un appunto sul bravo singer, forse troppo continuo nel modo di cantare. In alcune tracce, ad esempio “Back Off” o “Rejoining”, spazia con altri toni, dimostrando di poter fare qualcosa di più. Nell’insieme, il cd si lascia ascoltare fino in fondo, le songs si alternano abbastanza bene (anche se l’unica che si stacca un po’ dalle altre per carattere è la già citata “Back Off”) e non soffrono di pesanti ipertrofie. Nulla da dire a livello di produzione: si sente come si dovrebbero sentire questo genere di lavori. Un parola sull’artwork, all’inizio mi ha lasciato freddino, ma poi mi ha riconquistato. Qualcuno potrebbe dire che qua e là manca un po’ di spinta e di energia, forse avrebbe ragione ma vabbé, per questa volta li perdono... gli “Starlight Extinction” conoscono i propri mezzi, ci sanno fare e se lo meritano. (Alberto Merlotti)

(Bunker Production)
Voto: 70

Aneurysm - Shades


Verona - Italia: gli Aneursym sono una delle storiche band della città di Giulietta e Romeo da più di quindici anni, ma ha all’attivo solo un demo e un cd autoprodotto e ormai datato 2002, intitolato “Aware”. Il sound del quintetto scaligero, partendo da una base techno thrash, riesce a sciorinare 15 buoni brani (in realtà 9 tracce più 6 intermezzi) di musica abbastanza varia ed originale. Grazie anche ad un’ottima registrazione, il combo veneto ci attacca con un muro sonoro bello compatto, che gioca alternando sapienti mid tempos a cavalcate thrash (reminescenza di quei begli anni ’80 ormai andati), sorrette da un eccellente lavoro alle chitarre, non disdegnando però, e qui è forse racchiuso il bello del Cd, fughe in territori alternative (di chiaro rimando ai System of a Down, soprattutto per ciò che concerne l’utilizzo delle vocals), atmosfere cibernetico-industriali, grazie alla buona performance di Stefano alle tastiere, e momenti claustrofobici di “Meshuggahana” memoria, come capita in “Quagmire”. Da rilevare poi l’apparizione di Hansi Kursch (vocalist dei Blind Guardian) in veste di ospite nella meravigliosa “Reflection”, dove le vocals del leader della band tedesca, si rincorrono a quelle di Gianmaria, in un climax ascendente da brividi. Il resto di “Shades” scivola via che è un piacere, con le songs che s’imprimono facilmente nella nostra mente, per quelle gustose melodie, quella giusta dose di cattiveria, per i brillanti assoli di Peter e per la sapienza palesata di saper variare nel momento giusto i brani con scelte più o meno azzeccate. Un paio di song oscure, dalle strutture complesse, chitarre chirurgiche e la voce di Gianmaria, che spesso fa il verso a quella di Serj Tankian, completano un disco che si chiude con la malinconica “Real Ease”, brano che sancisce l’esplosione di una nuova ottima band, nel panorama italiano...(Francesco Scarci)

(Old Ones Records)
Voto: 75

Floodstain - Slave to the Self Feeding Machine

#PER CHI AMA: Death/Stoner, Machine Head, Mastodon
Un cd dalla Olanda e la band suona pure un Stoner/Death cattivissimo? Oddio, fa che sia bello, ne ho bisogno.. Allora ascoltiamolo e incrociamo le dita. Sette pezzi che lo classificano nel panorama degli EP e grafica del packaging spartana ma fatta di pugno, perlomeno originale. Il primo pezzo "Deathproof" mostra subito la classicità dello stoner interpretato dai Floodstain: chitarre accordate uno/due toni sotto e via potenti come su una Harley. Diciamo che la voce in stile death è il primo dettaglio che differenzia i Floodstain dal genere classico, insieme a qualche passaggio melodico. Invece il terzo brano che da il nome all' EP nasconde quel potenziale che non avevo immaginato dopo i primi due pezzi: intro melodica con un pianoforte che viene subito divorato dalle distorsioni, lo stesso vale per la voce di Jozz che per poche battute sembra molto Gavin Rossdale ma poi si libera e diventa quel cane rabbioso che tenta di divorarti per i vicoli bui dell' anima. Cinque minuti abbondanti tutti da vivere al culmine dell' ansia. "The Pence within" invece taglia fuori lo stoner e tramuta i Floodstain in una band puramente Death, dalla tecnica anche accettabile se vogliamo. Next one please.. "The Slumbering Titan Slayer" è un pezzone tutto cactus e odore di petrolio nella valle della Morte. Per carità, i Kyuss e i QOTSA potrebbero citare in giudizio i Floodstain per "ispirazione molesta", ma il fatto strano è che quest'ultimi citano i Machine Head e Mastodon come influenze.. Mah. Secondo lavoro (premetto che non sono riuscito a recuperare il primo "Dreams Make Monster") ma ai Floodstain serve una buona iniezione di creatività per idstinguersi nel panorama stoner, sempre che sia quello che vogliono. (Michele Montanari)

(BadMoodMan Music)
Voto: 65

sabato 15 gennaio 2011

Potential Threat - A New Threat


Arrivano dalla città santa del thrash, San Francisco, e si sente. I Potential Threat SF apprendono (anche troppo) dai grandi del genere e ci scodellano questo dischetto, non privo di spunti interessanti. Fedeli del thrash, vi sentite un po’ orfani del genere? Pensate: ma un ciddì tipo quelli dei Pantera, se ne fanno ancora?! Questo qui potrebbe interessarvi. Il lavoro ricalca tutti gli stilemi del genere, inoltre ci aggiunge qualche suggestione di gruppi new-metal (i Machine Head in particolare), le quali rendono il tutto meno scontato. Nulla di veramente nuovo quindi, tutto già sentito e digerito; a dire il vero nell’ascolto mi prende un po’ la nostalgia degli anni passati. Sì perché il ritmo potente, le chitarre tiratissime, l’energia, la rabbia e la batteria martellante che scaturiscono, a me piacciono. Mi piace sentire il muro sonoro che sorge dalle tracce, il continuo rullare della batteria, i giri di basso tellurici e gli stacchi. Mi piace un po’ meno lo stile del cantante, bravo per carità, troppo monotono e ispirato a James Hetfield (fatto che, di per sé, non sarebbe male, ma qui un po’ troppo ispirato). Ho molto gradito il gran lavoro del batterista, che picchia come un fabbro e bene. Prendete la opening track “Remember the Violence”: ecco lì c’è la somma dei pregi e dei difetti del platter. Una canzone tirata, con aperture, stacchi rapidi e concessioni melodiche. Ha nella ripetitività il suo punto debole. “Watch it Fade Away” è più violenta nei suoni, ma più calma nel cantato ed è giocata sull’alternarsi di queste parti. Stesso discorso si potrebbe fare per “For Our Nation”. Piacevole l’inizio sincopato della violenta “Far from the Truth”, quella che più mi ha colpito del mazzo. Un vero dispiego delle capacità tecniche del trio. Le altre songs rimangono al palo, ma non mancano di potenza e velocità. Nota super positiva, la lunghezza delle canzoni. Non si va mai oltre i 5 minuti e questo aiuta contro la reiterazione dei suoni. Ben realizzata la produzione, non mostra pecche. Alla fine dell’ascolto, ho avuto 50 minuti di energia, di musica potente, veloce, meno prevedibile di quanto avessi immaginato, ma anche meno di quanto sperassi. Lo stomaco è soddisfatto, l’orecchio vorrebbe qualcosa di più vario, ma questa volta può bastare. Promossi con sufficienza piena. (Alberto Merlotti)

(OSM Records)
Voto: 70

Atlantic Tide - Bad Acid Queen 7"


Come vi immaginate che sia un’onda atlantica? Vi dico la mia (ma voi non copiate): ecco, più che ad un’onda di quelle gigantesche da film di surfisti (tipo “Un Mercoledì da Leoni”), io ho pensato ad una corrente forte, un vortice marino caldo, difficilmente prevedibile ma non troppo intenso da divenire pericoloso per la navigazione. Ora, io non saprei dire se il trio svedese avesse in mente questo quando han deciso di chiamarsi “Atlantic Tide” e di suonare questo demo, però le due canzoni qui contenute, si adattano molto bene alla mia immagine. Secondo me i nostri ci sanno fare. Non sono di primo pelo: il cantante e il batterista hanno militato in altri gruppi e insieme nei “Terra Firma”, mentre il chitarrista ha un passato nei Blackshine, death’n roll band. Mi piace il suono di queste due canzoni, mi piace lo spirito che ne esce, mi piace l’alchimia sonora che scaturisce. Sono tracce raffinate, ricercate nella composizione, con presenza di melodie complesse, ma non stucchevoli. Tecnicamente capaci, trovo un po’ incerta la voce del vocalist in alcuni passaggi. Poco male, si è talmente coinvolti dalla musica che non lo si nota poi cosi troppo, ma su un lavoro di questo respiro stona un pochino. Trovo “Eyestroids” particolarmente elegante, ne apprezzo la fluidità trascinante, come l’onda atlantica che avevo inizialmente immaginato. La mancanza di stacchi netti facilita questa sensazione, la fusione di suoni elettrici con altri più classici, origina un effetto quasi psichedelico. Meno fluida, più ruvida la title track “Bad Acid Queen”, che ha in sé, come prevedibile dal titolo, un certo gusto acid-rock. Presenta un carattere più aggressivo e un po’ meno melodico rispetto alla precedente: cambi di ritmo, accordi più tirati, batteria più dura e il finale sfumato rendono l’onda atlantica qui più frizzante, ma non meno avvolgente. La lunghezza delle canzoni non è eccessiva e mi sembra un buon compromesso per dare sfoggio delle capacità del terzetto senza cadere nella noia. Sarei molto curioso di vedere cosa sarebbero in grado di fare su 33 giri. Per ora mi basta perdermi un attimo in queste due onde. (Alberto Merlotti)

(High Roller Records)
Voto: 70

Devilish Impressions - Diabolicanos: Act III Armageddon


Dopo l’uscita di "Plurima Mortis Imago", i Devilish Impressions tornano con il loro nuovo cd intitolato “Diabolicanos: Act III Armageddon”, edito dalla Conquer Records. In parecchi hanno ritenuto il lavoro passato come un disco dove il gruppo sembrava passare un periodo di transizione, ma con questo nuovo lavoro, i nostri sembrano aver ritrovato la loro dimensione, la loro creatività, la loro potenza e cattiveria (che non guasta mai). La release si apre con la canzone “T.H.O.R.N.S”, e dalla frase iniziale con la quale vengo investito "We are thorns which killed the fucking god!", ho già una mezza idea di quel che mi aspetta. L’inizio è sfolgorante, trascinante, potente, con la batteria annichilente che si lascia apprezzare ad ogni secondo della opening track, per non essere mai banale e sempre estremamente precisa, complimenti a Icanraz, il dramme del combo polacco. I riff di chitarra anche con i successivi brani, si confermano sempre potenti e melodici, risultando anche inaspettatamente ricercati e mai banali. La voce di Quazarre è davvero notevole ed espressiva, mai esasperata nel suo cantato: segue perfettamente l’atmosfera richiesta dai brani, brani che corrono via piacevolmente senza annoiare mai. Pezzi come “Rex Inferni”, “The Word was Made Flesh Turned into Chaos Again”, “I Am the Son of God” o ”Tales of Babylon`s Whore”, partono con una delicatezza inattesa per poi subire un crescendo di potenza e suggestioni infernali che si amalgamano perfettamente con la sulfurea atmosfera che trasuda l’intero lavoro. Quando si arriva a “Diabolicanos”, “Natas Ro Dog On Si Ereht (Of Plagues and Blasphemy)” e” Har - Magedon”, il cd esplode in un mare lavico di micidiale black metal, dove il gruppo riesce a dare decisamente il meglio di sé, sia a livello compositivo che tecnico-interpretativo, dando prova di grande intensità e cattiveria musicale. Il Cd si chiude con “Mass for the Dead”, song che rispecchia fedelmente lo stile del gruppo grazie a quel suo feeling maligno e infernale. Tutto il lavoro dei Devilish Impressions è da ascoltare, consigliatissimo, molto ricercato nei suoni e intelligentemente studiato anche nella sequenza della track list, infatti sembra quasi che il cd si divida in due parti, una parte più ragionata, melodica, ritmata, quasi con andamento marziale, l’altra violenta e totalmente distruttiva. Buona questa nuova fatica dei Devilish Impressiosns, consigliatissimi! (PanDaemonAeon)

(Conquer Records)
Voto:75

Agael - Hybris


Innanzitutto diciamo che Agael non è una band, ma una “one-man band”, proveniente dalle lande teutoniche, con il primo album uscito nel 2009: misterioso, come la sua musica. Inserisco il cd nel lettore. Sento le prime note, e già mi sovviene la sensazione di dovermi imbarcare per un viaggio via mare. “Black Human Snow” si caratterizza da suoni orchestrali e trombe dal suono profondo, che ricordano vagamente i suoni di una nave; seguite poi da una vena più spleen, con pianoforte e drum machine, che ci destano dalla nostra fantasia. “Legend”, la traccia seguente, si affida più alla ruvidezza delle chitarre (in parte distorte e in parte pulite) e alla voce quasi incomprensibile e gracchiante: la vedrei bene come voce di Freddy Krueger per un nuovo capitolo della saga... tutta la traccia segue lo stesso riff di chitarra, accompagnato da suoni bui in sottofondo, pregni di una vena malvagia, che questo misterioso personaggio vuole mostrare ai più. Per quante volte la si ascolti, non riesco nemmeno a capire se Mr. Agael canti in inglese o in tedesco: la voce è talmente distorta da risultare di difficile interpretazione. Viene poi il turno di “Inanity”, con la pura drum machine in primo piano, che accompagna stridenti vocals, in questo frangente più chiare nella loro comprensione: ora si riesce infatti a capire il linguaggio utilizzato è l’inglese con alcuni intermezzi in tedesco e un’alternanza di clean vocals e screams. Dopo la parentesi più “umana”, il sound rallenta fino a mettere in risalto la timbrica dei piatti della batteria e dei suoni campionati (mi ricorda un non so che dei primi Nine Inch Nails), per poi riprendere nuovamente la precedente cadenza. Con “Lambs of the Rain” si placa la rabbia del nostro eroe, lasciando più spazio ai suoni di un temporale accompagnati dalle note di un pianoforte: un perfetto connubio per sottolineare la tristezza e la malinconia che la vita può portare. Se ascoltato mentre ci si riposa sul divano o sul letto, rilassa a meraviglia. Con “Cathartic” ci si ridesta dal torpore creato dalla precedente song, ma in maniera meno traumatica: mi azzardo a dire che assomiglia al progressive rock dei Porcupine Tree, anche se decisamente in salsa più metal e distorta. Tutta la traccia è strumentale e riesce addirittura a mettere di buon umore, con qualche strillo di gabbiano qua e là: più il cd avanza e più resto stupita di quest'idea di associare l'ambient al black metal (che, a parer mio, è qualcosa di spettacolare). Che dire di “My guilt”? Violino e suoni pomposi,che ci accompagnano ancora lungo il nostro cammino iniziale, in un'altra epoca ove la nostalgia finisce tuttavia per prendere il sopravvento. Con “Have you Seen the Others” torniamo al sound di “Legend”, ma con una certa differenza nello stile: la batteria viene intervallata dai momenti cantanti e dai soliti suoni orchestrali (su questo si è particolarmente fissato). Siamo quasi in dirittura d’arrivo mentre “Garden of Detritus” scorre in sottofondo con le sue ambientazioni, pacate, rilassate e a tratti inquietanti (mi aspettavo che prima o poi uscisse un urlo da farmi saltare sulla sedia). Si arriva così alla sorprendente “Die Gestohlenen Flüsse”. Perché sorprendente penserete voi? Perché, semplicemente, racchiude ben due tracce fantasma al suo interno. Se la traccia “ufficiale” è caratterizzata dal campionatore e qualche violino, con il suol ritmo quasi funebre, dopo una pausa di 2 minuti e mezzo deflagra semplicemente un riff campionato, mentre la seconda ghost track è l'associazione di pianoforte, batteria e flauto, un connubio che lascia senza parole per la stranezza di questa scelta, ma che la rende valida ascolto dopo ascolto. Posso concludere dicendo che ho dovuto ascoltare “Hybris” moltissime volte per riuscirne a captare tutte le sfumature in quanto si tratta di una release talmente ricca e varia di suoni, idee e sperimentazioni che necessita molti ascolti e molta attenzione. (Samantha Pigozzo)

(Naturmacht Productions)
Voto: 75

Nauthisuruz - Visions


Ed eccomi a riprendere in mano il capitolo Nauthisuruz, questo duo russo sperimentale e fantasioso: mi accingo a dedicare il mio udito a “Visions”, dopo aver ascoltato da poco il capitolo “State of Mind”. Si inizia con la pacata intro “Voice from the Dephts”: gli archi lasciano spazio al piano, contornato da una delicata chitarra elettrica, che aiuta a dare un senso di pace e di preparazione mentalmente ad un lungo viaggio, nei meandri della mente libera dai pensieri. “Invisible is Obvious” è un inno al silenzio e alla mente lontana dalle sensazioni negative: è caratterizzata dalla voce roca e profonda, con la chitarra elettrica che, veloce e sbrigativa, aumenta un senso di inquietudine, con l’aggiunta di qualche inserto elettronico che contribuisce a rendere il tutto più industrial che black metal. “Apathy”, altro brano orche-strumentale, si avvale molto dell’aiuto della drum machine nella prima parte, mentre nella seconda l’aria si fa più pesante e il pianoforte contribuisce a dare man forte. “Life in Magic”, vero tripudio di suoni contorti, riprende l’argomento silenzio e il rumore che esso fa, il tutto sottolineato da una voce roca e disperata, il tutto tremendamente permeato da un’aurea malinconica. “Dreaming”, seguendo la scaletta del brano cantato seguito dal brano strumentale, presenta suoni elettronici, con la drum machine ridotta al minimo accompagnata da soavi note di flauto, che portano la mente a ancora più lontano. Si incontra poi “Ode for a Man”, in cui il tema di fondo è la vita terrena perduta, e la strada per diventare divinità: mentre il corpo si disintegra, l’unica cosa che rimane è la coscienza. Tutto questo è caratterizzato da un’aria solenne, grandiosa, elettronica, dove le chitarre sono magnificamente accoppiate a suoni elettronici, e fanno da sfondo per vocals forti e cattive. “Lost Feelings” riprende le atmosfere di “Apathy”, creando un ambiente freddo e insensibile, ma molto profondo. “My Apocalypse” apre con un’intro prettamente orchestrale, che ha il ruolo di aumentarne la tensione: tutto il brano lascia trasparire angoscianti sensazioni di malinconia e rassegnazione: l’utilizzo di toccanti note di pianoforte enfatizza molto queste sensazioni, grazie anche al tono di voce profondo. Con l’outro “With no Thoughts”, la spirale di tristezza fortunatamente termina, lasciando la mente in balìa dei pensieri ma con un piccolo spiraglio di luce, che infonde più fiducia e quiete, rasserenando l’animo. “Internal Fight”, la prima delle due bonus track, riprende lo stile della seconda traccia, con un ritmo veloce ed accattivante, e con un solo di chitarra, delizia per le mie orecchie. Con “Innominatus” si arriva alla fine di questo viaggio: l’atmosfera si fa più orchestrale, differenziandosi totalmente dalla precedente song, grazie anche al parlato e al ritmo serrato, veloce, oserei dire geniale. Come perla, vi è anche un coro di voci femminili. Per concludere, quest’opera si rivela più varia rispetto a “State of Mind”: moderatamente “heavy”, come annunciato anche sul loro sito ufficiale, “Visions” ha bisogno di un ascolto attento, non troppo impegnativo e soprattutto ne consiglio l’ascolto ad occhi chiusi, comodi, dove più aggrada, in modo tale da assaporare ogni singola venatura e particolarità. Magico! (Samantha Pigozzo)

(Haarbn Prod.)
Voto: 85

Sworn Enemy - Maniacal


A distanza di un anno da “The Beginning of the End”, torna il quintetto hardcore di New York degli Sworn Enemy. Balza subito all'orecchio una differenza rispetto agli esordi della band, ossia l'allontanamento quasi totale dal genere che li aveva lanciati, l'hardcore, con una propensione a proporre invece suoni decisamente più “classici”, più thrash orientati, propri di band quali Slayer o Nuclear Assault, che già magari si erano intravisti nel lavoro dello scorso anno. Messe da parte quindi tutte le componenti “core”, la band di Brooklyn si lancia in un nuovo (e breve) lavoro, un assalto thrash metal di 33 minuti che darà nuova carica a chi come me è cresciuto a pane e thrash metal. Dieci tracce che si assestano sui tre minuti di durata ognuna e i cui ingredienti principali sono le tradizionali cavalcate in stile Bay Area, con chitarre taglienti, ritmiche galoppanti e vocals vetrioliche, con qualche buon assolo a chiudere i brani. “Maniacal” non sarà certo garanzia di musica originale o raffinata, ma se avete voglia di una serata energica con gli amici, beh potrebbe anche fare al caso vostro... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 60

The Grieving Process - Assimilated Deformation


Mi spiace sempre castigare le band agli esordi, ma quando sento certe boiate, non resisto proprio al desiderio di stroncare un disco, perché mi rendo conto che avrei potuto registrarlo pure io. Chiamatela invidia o in qualsiasi altro modo, ma il debut degli statunitensi The Grievance Process, non lo regalerei neppure al mio peggior nemico. È un album così convenzionale, banale e suonato per giunta male, che non riesco ad accettare che tali prodotti affollino un mercato già di per sé saturo. Il genere che propone il quintetto americano è un brutal death privo di qualsiasi spunto personale, che tra l'altro mostra un suono di batteria tra i più orridi che abbia mai sentito in circolazione. Una violentissima ritmica e delle brutal vocals completano la frittata di un album chiaramente orribile... (Francesco Scarci)

(Anticulture)
Voto: 40

Pain Principle - Waiting for the Flies


I Pain Principle? Una band fra tante... Ve lo domanderete anche voi, dopo aver messo il cd nel vostro stereo e ascoltato l'intro e la seconda “Body Farm”, per quale motivo la maggior parte delle testate internazionali osannino questa band, che non fa altro che andare ad affollare il calderone death metal. La band di Orlando, che sinceramente non conoscevo e scopro solo oggi che esiste dal lontano 1993 (mi chiedo solo dove sono stati nascosti fino ad ora), rientrano nell'immensa distesa di gruppi che hanno ben poco da dire di nuovo. Questa è la loro terza fatica, un album di discreto e onesto death/thrash metal, con riffs pesanti, quanto mai convenzionali, ritmiche belle tirate e le vocals di Kevin Bullock incazzate quanto basta, sullo stile di Chuck Schuldiner. L'unica cosa su cui mi soffermerei invece, sono gli ottimi assoli di John Sutton, abbastanza melodici e assai ricercati, insomma una vera ascia alla chitarra. Quindi nessuna grossa novità proveniente dagli States, siamo sempre fermi a suoni di una decina di anni fa... Ottima la produzione infine di Eric Rutan (Hate Eternal e Cannibal Corpse), con suoni puliti, troppo poco però per elevare a capolavoro “Waiting for the Flies”. (Francesco Scarci)

(Blind Prophecy Records)
Voto: 65

Scarpoint - The Silence We Deserve


Una inquietante ma stupenda intro, apre l'album d'esordio degli svedesi Scarpoint. Poi l'attacco del quintetto svedese, capitanato dai fondatori Henrik Englund e Zoran Kukulji, viene sferrato con “Disorder”, brano che fa intravedere le grandi potenzialità del giovane combo scandinavo. Prodotti egregiamente da Mr. Daniel Bergstrand (Meshuggah e In Flames), “The Silence We Deserve” si rivela ben presto album assai interessante con una serie di pezzi vincenti che, seppur non inventando nulla di nuovo, fondono certe sonorità martellanti care ai Darkane, con alcuni passaggi claustrofobici tipici dei Meshuggah (ascoltatevi “Terminal Treachery” o la title track con quei suoi giri ripetuti di chitarra). Le canzoni viaggiano su ritmi non troppo veloci, assai ritmate, con gli immancabili breakdown e con il classico riffing di matrice svedese. Le brutal vocals di Henrik e giusto quel pizzico di melodia che non guasta mai, completano un quadro che trova la sua summa in “Oblivion”, la song più varia dell'album. Credo che gli Scarpoint possano rivelarsi band vincente, perchè in grado di catturare l'attenzione di tutti gli amanti di sonorità estreme. Un ascolto è per lo meno dovuto... (Francesco Scarci)

(Blind Prophecy Records)
Voto: 70

lunedì 10 gennaio 2011

Immortal Remains - Everlasting Night


La My Kingdom Music ancora una volta va a scovare nel sottobosco underground, nella speranza di imbroccare la band giusta da aggiungere al proprio rooster, già di per sé ricco di band dalle grandi speranze. Però se i crucconi Immortal Remains, dopo 3 album erano ancora nell’anonimato, un perché forse c’è e sarebbe stato lecito chiederselo, per non rischiare un buco nell’acqua. Sia ben chiaro che il quintetto teutonico, in giro ormai dal 2000, non è che sia proprio pessimo: propone infatti un black death atmosferico, dai forti contorni horror-vampiristici, come il buon vecchio Dani e i suoi Cradle of Filth sono in grado di fare. Purtroppo però qui di musica brillante non ce n’è poi molta: dopo la consueta intro, si parte con “Xeper” e “The Hunting”, due tracce abbastanza piatte che viaggiano su ritmiche death tirate con un tappeto tastieristico a creare un’ambientazione gotica, con le gracchianti vocals di Andreas Hohwieler che si contrappongono al grunt di Guido Dürr. Si prosegue con la title track, contrassegnata da un inizio atmosferico che poi comunque sfocia ancora una volta in suoni quanto mai banali e scevri di qualsiasi spunto personale. “Everlasting Night” scivola via cosi, nell’anonimato più triste con una serie di brani, dove sono le strazianti, nevrotiche e fastidiose vocals ad essere ricordate. Un peccato che si sia deciso di puntare sui tedeschi Immortal Remains, quando in Italia abbiamo band come i Riul Doamnei (ancor prive di contratto), che proponendo un genere molto simile, sono in grado di unire un'elevata qualità a una bella dose di personalità. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 50

Kadavar - Kadavar


La Punishment 18 continua a fare incetta di band dedite ad un brutale death metal e i Kadavar non esulano di certo da questa proposta. Finalmente la giovane band milanese, dopo un demo e un Ep autoprodotti, rilascia il proprio incendiario debutto omonimo. Nove violentissimi brani di death ferale e distruttivo che trae ispirazione dalle “linee guida” americane di Morbid Angel e soci, conferendogli poi quel tocco di originalità “made in Italy”, che non fa mai male. Ne viene fuori un lavoro onesto, che non brilla certo per la sua ricercatezza di suoni raffinati o mai sentiti: il quartetto sciorina cataste di riffs grondanti sangue, intrisi di rabbia e adrenalina. Il sound si rivela potente e ruvido quanto basta: la band costruisce ritmiche talvolta contorte che si dipanano attraverso interessanti cambi di tempo e solos melodici. Le vocals al vetriolo di Lorenzo (il secondo chitarrista) e Luka (bassista) sono molto buone e riescono a conferire quel pizzico di personalità all’intero lavoro. In evidenza poi, come già detto, la chitarra solista che, nella maggior parte dei casi, riesce a smussare la brutalità della proposta, con un tocco di melodia che non guasta per niente. “Behind the Storm”, “Towards the Abyss” e “Morbid Sense of Weakness” sono i miei pezzi preferiti, per la tecnica espressa, l’efferatezza musicale (sempre controllata) messa in luce e un certo gusto estetico da non sottovalutare. Gli altri brani viaggiano più o meno sulle stesse coordinate stilistiche, mostrando ancora qualche lacuna dal punto di vista compositivo, che presto i nostri saranno in grado di sopperire, grazie all’esperienza e alla maturità: d’altro canto i Kadavar sono ancora molto giovani, quindi le premesse per fare ancora meglio con i prossimi lavori, ci sono tutte. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 65

Angel of Anger - Angel of Anger


Quattro tracce più intro per i bolognesi Angel of Anger, che fanno uscire questo seminale Mcd omonimo che odora un po’ di stantio, per quei suoi suoni abbastanza obsoleti. La cosa infatti che subito balza all’orecchio, ascoltando “Wake up Spirits”, è la sua vicinanza alle sonorità dei primi Necrodeath, ma anche agli esordi dei vercellesi Opera IX: chitarre thrash black assai selvagge, screaming vocals maligne e un’aura funerea, ammantano l’intero lavoro. Un delicato arpeggio e l’angelica voce di Andred (in pieno stile Cadaveria) aprono “Angelic Pain”; poi traendo nuovamente spunto dagli Opera IX di “The Call of the Woods”, la song scivola via su un death black orrorifico, con la voce di Andred ad alternarsi tra lo screaming più selvaggio e uno stile pulito. Con gli oltre dieci minuti della lunghissima “My Grave”, i nostri si vanno ad incuneare in percorsi death doom, alla ricerca di un proprio stile, che faticano a trovare. Però chi, come me ha amato le sonorità gotico-vampiresche di Cadaveria e soci, non potrà non apprezzare questa song che, nel suo apocalittico incedere, si snoda fra sfuriate death, cambi di tempo e tetre ambientazioni invernali. Peccato per la registrazione non proprio all’altezza e per una superficiale cura degli arrangiamenti (chissà forse voluta), ma sono convinto che una produzione migliore avrebbe giovato non poco, sull’esito finale di questo debutto autoprodotto, che chiude i battenti con la conclusiva “The Only Certainty”, altro pezzo di otto minuti e passa, che continua a proporre suoni mid-tempo dal vago sapore horror, tinto da linee di chitarra melodiche e assai malinconiche, dai vaghi richiami svedesi nella sua parte conclusiva. C’è da lavorare ancora molto alla ricerca di una propria identità ben definita, ma sicuramente la band è sulla strada giusta… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

lunedì 3 gennaio 2011

Dol Ammad - Winds of the Sun


Domenica pomeriggio: mentre il sole tramonta e le tenebre invernali si impossessano del cielo, mi arriva la richiesta di recensire il nuovo EP di una band greca (composta da ben 19 elementi, 5 facenti parte della band e 14 come chorus), la cui musica viene definita da Encyclopaedia Metallum “Progressive/Symphonic/Operatic Metal with Electronic music influences” (meno parole per definirla non credo ce ne siano/Ndr). Si tratta dei Dol Ammad, act ellenico proveniente da Thessaloniki, formatosi ben 11 anni fa e con all'attivo due full lenght. La title track, prima traccia dell'album, è dedicata all'astrochimico Carl Sagan, uno dei fondatori del progetto per la ricerca delle intelligenze extraterrestri (come spiegato nel loro sito ufficiale); qui la band, come vocalist, si avvale della partecipazione di DC Cooper (Silent Force ed ex Royal Hunt). Tutta la canzone è orchestrale, con la voce in primo piano, epica e portata ai limiti possibili: la song sarebbe perfetta come colonna sonora per un viaggio interspaziale verso le costellazioni più remote, cosi come descritto nel testo. La seconda traccia è la cover di “Black Winter Day” degli Amorphis, in versione decisamente più elettronica e ritmata, ma di bell'effetto, anche se è un po' strano, devo ammetterlo, sentire inizialmente un chorus (stile Therion) e poi una voce femminile cantarla, così soave se paragonata con la profonda tonalità di Tomi Koivusaari, tuttavia risulta una piacevole sorpresa. La terza song, “Theeta Dominion”, pesca dall'electro rock anni '80, quasi si trattasse di una versione rockettara dei Depeche Mode: il risultato è un pezzo ricco di sperimentazioni che ben si accompagnano alla voce dell'Europa Choir, che conferiscono più solennità alla componente elettronica. La prima parte della canzone è strumentale, con synth, chitarre e cornamusa; si aggiunge poi una voce femminile che contribuisce a rendere ancora più armonioso il brano, in un crescendo di emozioni. Velocemente filiamo alla quarta, “Aquatic Majesty (choral remix)”: si tratta del remix di una vecchia canzone della band, contenuta nel precedente “Ocean Dynamics”, dove è più enfatizzata la parte corale (e qui i 14 elementi, 7 uomini e 7 donne, danno il meglio di sé), e dove la parte strumentale appare posta in secondo piano. Per quanto particolare, il pezzo risulta piacevole e magico, intenso e maestoso. Con “Birth of a Dream” si arriva ahimè alla fine dell'EP: brano quasi interamente strumentale (c’è qualche sussurro qua e là di una eterea voce femminile), ipnotico e destabilizzante, in cui il combo greco si è avvalso principalmente del solo sintetizzatore mentre da metà brano fa la sua comparsa un'ululante chitarra elettrica. Con "La Nascita di un Sogno", i nostri hanno voluto verosimilmente enfatizzare al massimo il rumore dell'universo (un consiglio: usare l'album per qualche speciale sull'universo? Qualcuno avvisi l'ISS per favore) e allo stesso tempo rilassare le nostre menti, in un lungo viaggio nello spazio sconfinato attorno a noi. Per concludere, oltre a dire che questo EP mi ha stupito e piacevolmente sorpreso (la mente ha girovagato realmente per spazi intergalattici), ne consiglio l’acquisto a tutti: grazie a Thanasis, leader della band che ne ha permesso la diffusione digitale e grazie alla “Terra degli Dei” che ci ha portato questa eccitante perla di sperimentazione musicale. (Samantha Pigozzo)

(Electronicartmetal Records)
Voto: 85

sabato 1 gennaio 2011

Astral Sleep - Angel


Roboanti riffs di chitarra aprono questo strano EP di tre pezzi (ma di oltre mezz’ora di musica) dei finlandesi Astral Sleep: ho scritto strano in quanto il lavoro consta del medesimo testo, la cui musica è stata scritta separatamente da 3 dei membri della band. Veniamo alla prima versione quindi di “Angel”: ritmica martellante iniziale dicevo, super rallentamento con vocals sabbatiche e improvvise accelerazioni death che si stagliano su un tappeto doom atmosferico, con la voce di Markus Heinonen, che grazie alla sua notevole versatilità, si diletta nelle sue scorribande dal growling più oscuro ad uno screaming feroce, passando attraverso le cleaning vocals in stile Black Sabbath, sopra citate. Il risultato non è affatto malvagio, e la curiosità di ascoltare il medesimo testo riletto in chiave totalmente differente diventa sempre più forte: “2nd Angel” inizia infatti molto più rallentata col tipico rifferama del funeral doom. Si tratta di una song più ragionata, funeraria nel suo incedere, dotata di un breve intermezzo acustico nella parte centrale che la rende assai interessante e di una delirante cavalcata sul finire, che ne fanno la mia song preferita della release. “Il Terzo Angelo” attacca in modo ancor più sinistro rispetto alle precedenti con il testo “You are an Angel…” declamato in modo diabolico dal sempre bravo Markus, vero punto di forza della band. Sembra quasi di ascoltare una versione funeral doom dei Massive Attack, strano a dirsi, ma devo ammettere che il risultato finale mi piace molto, seppur manchi un po’ di dinamicità e io non sia certo un grandissimo cultore del genere. Chitarre dal vago sapore seventies emergono dagli inferi di “3rd Angel” e non solo perché anche una bella accelerata thrash fa la sua comparsa sul finire della song, nella spettrale fortezza degli Astral Sleep, dominata da un inquietante basso e da malati vocalizzi. Intriganti, squilibrati e maledettamente originali, d’altro canto dalla Finlandia è lecito aspettarsi qualsiasi cosa... (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 75

Letargy Dream - Heliopolis


Mmm, mi sa che questo giro quello che ho fra le mani è qualcosa di veramente strano anche per me, che viene dalle lande sperdute della Russia. Prima di tutto la lunghezza forse esagerata dei 4 pezzi, poi devo riuscire a vincere la mia avversione al cantato in lingua madre russo, più che altro nelle vocals pulite, però questo “Heliopolis” scotta parecchio per i suoi contenuti estremamente particolari. L’album, concettualmente basato sulla letteratura distopica del 20° secolo (per intenderci la letteratura che ipotizzando che attraverso la tecnologia e il controllo sociale si possa davvero creare il mondo "perfetto"), si apre con “Saturn”, song assai complessa e affascinante, che partendo da sonorità doom avanguadistiche simili a quelle dei connazionali Rakoth, esplora in modo più profondo il genere, arricchendolo di aperture progressive (si stile Porcupine Tree, avete capito bene), tenendoci incollati allo stereo anche per qualche sconfinamento in territori un po’ più estremi (più che altro solo per l’uso di vocals più corrosive e decisamente accettabili dal sottoscritto). Il sound del quartetto est europeo è davvero caleidoscopico, perché si passa con estrema disinvoltura da un genere all’altro; ne è un palese esempio il cambio di ritmo nella parte centrale di “We’ll Die Smiling Broadly” dove da un’apertura quasi folk rock si passa ad attacco frontale black anche se della durata di pochi secondi, per poi far ritorno in modo quasi frastornante, verso sentieri psichedelici, tribali, progressive in un vorticoso turbinio ritmico che non può che lasciarmi spiazzato, cosi come non può che lasciarmi spiazzato o a dir poco basito, l’inserimento del “Pink Panther Theme” nella title track, song che inizia con una melodia darkeggiante, le solite insopportabili liriche in russo (solo questa cosa mi costringe a tener relativamente basso il mio voto), melodie orientaleggianti e poi la follia, la pazza imprevedibilità, quello che non ti aspetti, l’inserimento appunto del tema della Pantera Rosa. I nostri fanno un po’ tutto quello che passa loro per la testa e lo fanno con estrema intelligenza e gusto, fregandosene di etichette, di opinioni di stupidi recensori o testate giornalistiche. I Letargy Dream stupiscono per la loro bravura, la loro intensità, per la capacità di farci cogliere i loro umori, le emozioni e le percezioni e saperle incanalare attraverso un ubriacante viaggio in un mondo incantato fatto di colori inimmaginabili, suoni spettacolari e orchestrazioni da brivido. Peccato solo per quel maledettissimo modo di cantare che proprio non riesco a tollerare, e che altera notevolmente il mio ascolto attento del pezzo, altrimenti l’album avrebbe potuto ricavare molto di più. Se si vuole far breccia nel cuore (meglio nell’orecchio) dell’ascoltatore europeo, meglio lasciar perdere le liriche in russo e iniziare a fare un bel corso di inglese, in modo da potersi aprire ad un pubblico più vasto. Da rivedere decisamente in futuro questa debolezza, mentre musicalmente ci siamo, eccome… Provare per credere! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Amia Venera Landscape - The Long Procession


Pensavo che i botti di fine anno avessero raggiunto i loro apice alla mezzanotte del 1° gennaio 2011, ma invece eccomi qui, con un nuovo cd inserito nel mio stereo, a lasciarmi investire dalla scoppiettante miscela di post hardcore, sludge e ambient degli italianissimi (e lo dico con estremo orgoglio) Amia Venera Landscape, vero e proprio fulmine a ciel sereno di questo inizio anno. Dopo l’ottima prova degli At the Soundawn, un’altra eccellente band italica si appresta quindi a competere a testa alta con i maestri del genere, se non addirittura a superarli. Sono rimasto impressionato fin dal primo ascolto di questa “Lunga Processione”, in primis per l’eccelsa qualità dei suoni, potenti, corposi e avvolgenti, che mi hanno fin da subito conquistato. Come non citare successivamente la grafica, abbastanza minimalista, ma quanto mai intrigante, del booklet, completo delle liriche e di bellissime fotografie. E poi la musica, si, la cosa più importante dopotutto: accennavo al fatto che i nostri suonano principalmente un post hardcore, ma non limitiamoci superficialmente a quest’etichetta o allo stereotipo che può suscitare la parola hardcore, perché dentro alle note di “The Long Procession” si nasconde poesia, rabbia, furore, inattesa dolcezza, intrigo e mistero, il tutto suonato con estrema passione, intelligenza e imprevedibilità. Il sestetto veneto apre le danze con la vulcanica “Empire”, condensato di ferocia hardcore miscelato con ambientazioni oscure; rimango immediatamente basito di fronte a cotanta classe e già non vedo l’ora di ascoltare le song successive. “A New Aurora” è un brano meraviglioso dove accanto alla sempre presente componente brutale e graffiante del combo di Belluno, si pone un’alternanza di ritmi mozzafiato, stop’n go, atmosfere post rock, con le voci (un growling furibondo e clean vocals in pieno stile Klimt 1918) che si incrociano, si incalzano e giocano in un ascendente climax che raggiungerà la sua perfezione al termine degli oltre 7 minuti di musica eccitante e travolgente di questa release targata Amia Venera Landscape, che già ho inserito tra i migliori album del 2010. Un pugno in faccia improvvisamente mi tramortisce e stende, ma in realtà si tratta di “My Hands Will Burn First”, poi la quiete: mi gira la testa, ronzano le mie orecchie, un roboante sibilo penetra nel mio cervello, ma è solo l’incedere tramortente di “Ascending”, che forse ha il suo difetto nell’essere un po’ troppo prolissa. Ancora momenti di pacatissima quiete con “Glances (Part I)” (avrei evitato di mettere 2 pezzi puramente ambient contigui) e riecco esplodere la seconda parte di “Glances” dove i nostri si confermano band di assoluto valore e tecnica, squisita raffinatezza e senza dubbio di grande innovazione e sperimentazione. Incorporati alla velocità della luce i dettami del genere (la band nasce nel 2007) dai mostri sacri Cult of Luna, The Ocean e Dillinger Escape Plan, gli Amia Venera Landscape hanno intrapreso la propria strada con una propria spiccata e forte personalità ed ecco rilasciare questo esplosivo lavoro. Non lasciamoci scappare poi un commento per i quasi 14 minuti di “Marasm”, la song più complessa, articolata e particolare delle 10 racchiuse in questo gioiello: inizio rilassato, decisamente ambientale, poi esplosione di roboanti chitarre (ce ne sono ben 3 in formazione) seguite da frammenti di post rock malinconico, e poi ecco all’improvviso scatenarsi nelle casse del mio stereo schegge impazzite di math a “disturbarmi” il cervello come solo i Dillinger sanno fare. Non c’è traccia di vocals in questo schizoide brano ma molto meglio cosi, lo si gode tutto di un fiato e il lungo minutaggio svanisce in un batter di ciglia. Nemmeno un attimo di godersi un po’ di pace e “Nicholas” irrompe con i suoi 8 minuti e passa, a dimostrarci che la band si trova a proprio agio nella gestione di brani a lungo minutaggio denotando ancora una volta una maturità degna di veterani. “Infinite Sunset of the Sleepless Man” ci dà il tempo di ricaricare le batterie prima della conclusiva ”The Traitors’ March” che mi conferma che una nuova realtà italiana è pronta e in grado di sconquassare il mondo, con il proprio sound, questo nuovo anno. Eccezionali! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90