Interviews

giovedì 30 giugno 2011

Shadowdances - Misery Loves My Company

#PER CHI AMA: Gothic, Prog, Dark, Autumnblaze, Riverside
Quanto adoro le band provenienti dai paesi baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia), non so per quale arcano motivo, ma la loro musica ha sempre qualcosa di magico nelle proprie note. Non sono da meno quindi neppure i lituani Shadowdances che mi trovo qui oggi a recensire con questo lavoro autoprodotto di ben 13 pezzi. La musica di Joudas (cantante e batterista) e compagni, è un mix di gothic dark dalle fini atmosfere e dalle profonde emozioni. È un peccato che pochi si siano accorti di questa band, che ci tengo a dirlo esiste fin dal 1994. La musica del quintetto baltico si può descrivere con i colori tenui e aranciati dell’autunno, con quelle sue melliflue atmosfere contrapposte all’incedere rockeggiante delle linee di chitarra. Mi piace, mi piace davvero la proposta del combo lituano, perché produce intime suggestioni durante il suo ascolto, forse perché amo immergermi in malinconici flussi musicali e lasciarmi turbare l’animo dalla potenza della musica. E per chi come me ama abbandonarsi in questo genere di suoni, rimarrà sicuramente vittima del fascinoso sound degli Shadowdances. “I Crawl”, “The Girl” e la successiva “Autumn Haze” sono tre splendidi pezzi che richiamano gli esordi degli austriaci Autumnblaze, aggiungendo però quel pizzico di poesia, che ribadisco solo i gruppi provenienti da quei luoghi, sono in grado di conferire alla musica. Musica elegante, raffinata creata e suonata da ottimi musicisti: “Misery Loves My Company” è un intenso viaggio nelle profondità dell’animo umano, carico di disperazione, angoscia e paura. La parte centrale del cd si rivela ancora più struggente, con le forti malinconiche linee vocali di Juodas a dominare la scena e oscure ambientazioni a far sembrare la musica dei nostri nuvole cariche di pioggia pronte a scrosciare in pesanti ed interminabili piogge. Desolanti, nostalgici e inquieti, gli Shadowdances potrebbero rappresentare il perfetto connubio tra gli Anathema di “Eternity” e i Riverside degli esordi. Che dire di più di questo meraviglioso disco? Speriamo solo che la fortuna possa aiutare gli audaci e qui di audacia ce n’è parecchia… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Necrophagia - Harvest Ritual Volume I

#PER CHI AMA: Black/Thrash dalle tinte horror
Signore e signori, il teatro dell’orrore riapre i battenti con questa opera dei Necrophagia ormai datata 2005. Per chi non li conoscesse, i Necrophagia sono uno dei gruppi più longevi della scena metal: formatisi per mano di Killjoy nel 1983, per emulare le gesta dei Venom, esordiscono nel 1987 con “Season of the Dead” con un album estremo e malato. La band poi si scioglie, ma nel 1994 Phil Anselmo (cantante dei Pantera, all’epoca) propone a Killjoy di scrivere un nuovo lavoro: ne esce “Holocausto de la morte”... la creatura Necrophagia riprende a vivere con un nuovo orrorifico sound... il resto della storia la conoscete tutti... Dopo “The Divine Art of Torture” del 2003, ritorna sulla scena il sestetto statunitense con un nuovo e perverso album, “Harvest Ritual Volume I“, titolo che lascia presagire l’arrivo anche di un “Volume II”. L’impianto sonoro di questa nuova fatica, rimane il tipico black/thrash che ha contraddistinto i passati lavori della band, su cui si instaurano le corrosive e malate vocals di Killjoy e le spettrali tastiere di Mirai Kawashima (preso in prestito dai giapponesi Sigh) che conferiscono quel caratteristico e fascinoso aspetto lugubre ai Necrophagia, con forti richiami al cinema horror di Lucio Fulci (maestro italiano dell’horror mondiale). Le 10 song che costituiscono questo lavoro, sono come sempre tutt’altro che rassicuranti: campionamenti horror, riff granitici e voci malvagie catalizzano l'attenzione degli ascoltatori. Vi segnalo le tracks che più mi hanno colpito: la bellissima “Unearth” caratterizzata da tastiere orientaleggianti e pesantemente influenzate dal grande Claudio Simonetti, e “London 13 Demon Street” in cui a farla da padrone sono sempre le keys cupe e sinistre di Mirai, ma dove fa la sua comparsa anche una tenebrosa voce femminile. Rispetto ai passati lavori, questo nuovo “Harvest Ritual Vol. I” potrebbe mostrarvi (ma non lasciatevi ingannare) il lato più melodico e maturo della band di Killjoy e Phil Anselmo, quasi a voler scrollarsi di dosso l’etichetta di gruppo da serie B. Affascinanti... (Francesco Scarci) 
 
(Season of Mist)
Voto: 75

mercoledì 29 giugno 2011

Autumnblaze - Words are not What They Seem

#PER CHI AMA: Dark, Rock, Gothic, ultimi Anathema
La malinconia è un tratto distintivo che ha accompagnato gli Autumnblaze fin dai loro esordi. La band tedesca ha sempre fatto delle emozioni più grigie un'imprescindibile fonte d'ispirazione, attingendovi con sapiente moderazione, ma dimostrandosi oltremodo incurante dei potenziali benefici che un approccio meno rigido alla composizione avrebbe portato con sé. "Words are not What They Seem" rappresenta quasi un album di passaggio per il gruppo, decisosi finalmente a spostare l'accento umorale delle proprie canzoni su sfumature di colore ben più accese rispetto ai lavori precedenti. Pesanti pennellate di nero rimangono la base con la quale gli Autumnblaze amano dipingere la propria tela, ma brani come "Barefoot on Sunrays", "Heaven" o "I'm Drifting" vengono colmate da un'inedita lucentezza espressiva, evidenziando la volontà di aprirsi a nuove frontiere musicali. Appare quasi obbligato il paragone con gli Anathema, vista la comune tipologia di fan che entrambe le band sono solite raccogliere. Chi ha saputo apprezzare le recenti evoluzioni della band di Liverpool, non avrà difficoltà a ritrovare anche negli Autumnblaze delle qualità consone al proprio modo di intendere il rock, anche se il percorso seguito dal gruppo tedesco sembra comunque dirigersi verso sonorità più sanguigne rispetto a quanto proposto dagli Anathema. Eppure la classe è la stessa, come la predilezione per certe atmosfere intime e il tocco "floydiano" con cui vengono sottolineati alcuni passaggi di chitarra (si ascolti ad esempio l'onirica "Blue Star"). Particolarmente suggestiva l'interpretazione di "Falling", che i più attenti riconosceranno come il tema musicale di "Twin Peaks". E la rivisitazione in chiave rock del brano di Angelo Badalamenti non è l'unico riferimento al celeberrimo sceneggiato: in realtà, "Words are not What They Seem" è un concentrato di continui rimandi alla serie televisiva di David Lynch, dal titolo dell'album fino alle scelte grafiche di copertina (opera di Niklas Sundin dei Dark Tranquillity). Se nella tracklist dovessi proprio trovare un punto debole, potrei citare la stucchevole "Message from Nowhere", ma si tratterebbe, in fin dei conti, di una puntualizzazione superflua, che nulla toglierebbe al valore di un album eccellente. Un album la cui bellezza cresce con il tempo, svelando qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. (Roberto Alba)

(Prophecy Productions)
Voto: 80

sabato 25 giugno 2011

Mustywig - Knowledge of Another Sun

#PER CHI AMA: Dark, Indie, Alternative, Sludge
Incredibile quanto, suoni provenienti da altri generi musicali stiano contagiando violentemente le band metal, dando quindi la possibilità a noi ascoltatori di esplorare nuovi orizzonti musicali, provare nuove emozioni e soprattutto annoiarci un po’ meno. Una delle band che risente di queste contaminazioni è sicuramente quella dei napoletani Mustywig, che rilasciano "Knowledge of Another Sun" dopo qualche EPs e un paio di album che hanno permesso ai nostri di farsi conoscere all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Proprio dalle sconfinate praterie statunitensi derivano le maggiori influenze per la band campana, che pescando dalla scena indie rock americana ha concepito questo platter ricco di contenuti interessanti e di pregevoli spunti. Diciamo che l’album poggia su una solida base punk rock, figlia della generazione maledetta di fine anni ’70, infarcita poi dagli elementi più disparati: lungo le note di questa release è tanto facile imbattersi infatti in cavalcate heavy metal dal vago sapore ottantiano, quanto in sprazzi di elettronica o musica pop. Ma non solo, altrimenti questa descrizione sarebbe assai riduttiva per il quintetto partenopeo, che invece è stato in grado di miscelare tra loro con una certa disinvoltura, una serie di elementi in realtà di difficile incastro. Forti dell'ex Disciplinatha, Cristiano Santini, personaggio assai carismatico e dalla voce assai versatile, i Mustywig ci offrono 12 ottimi brani dove se ne sentono di tutti i colori: si passa dalla darkeggiante “Au Revoir” alla metallica “Shade-grown Future”, passando attraverso tempeste elettroniche cariche di influenze in stile ultimi Radiohead. Delicati frangenti ambient si frappongono a scatenate sonorità al limite dell’hardcore o dello sludge, con trip psichedelici sempre pronti a condurci nella dimensione malata e psicotica del mondo dei Mustywig, band di cui non conoscevo assolutamente nulla ma che si è mostrata la vera rivelazione della mia estate. Coraggiosi! (Francesco Scarci)

(Black Fading Records)
Voto: 75

Zifir - Protest Against Humanity - English

#FOR FANS OF: Black mid-tempo, early Nachtmystium, Burzum
Here's an album that you feel compelled to listen in full, a one-way trip to face alone through nine dying stations of pure hypnotic sound. It's not a far-fetched metaphor. The whole work is really designed as a journey through the darkest (and pure) places of the soul. It starts with an instrumental, slow and emotional intro, changed to a permanent abandonment of innocence places to soak slowly into a more hostile, bitter and biting sound. The "mosquito" guitars is the real ruler of this universe of sound. They permeate every tone with the same frequency with which they penetrate into the brain of the listener. They buzzing indiscriminately in slow and fast, violent and melancholy steps, at times recalling the early Nachtmystium, identically doped by this swarming omnipresence. Zifir absorb elements from many black metal bands (I affectionately call this spiritual slow black), able, however, to experiment and create an interesting work, demonstrating skills and professionalism in the composition of the tracks, which, while proposing an hypnotic background, do not show never repetitive. I do believe that it is necessary to have an early knowledge of this type of metal, otherwise it is impossible to fully appreciate it and are payable only a bunch of instruments and suffering voices. The result is something else. These bands create synergy and you can not say, "Hey, listen to this refrain". The refrain is not there, don't exist. Each song must be heard in full in its evolution. Only thus you can understand, for example, because the slower and pseudo instrumental tracks are "Uncertain", "The Poison From My Veins" and "Goat's Throne", respectively the first, fifth and last. "Goat's Throne", in particular, is a summary of the soul of the album. Eight minutes of inhospitality, where browsing gothic keyboards, clean vocals alternated with screaming and laments in Burzum's style. The only flaw, from my little point of view, the title of the album, which fortunately does not have a title track. There can not be a protest against humanity, if this same work start from the denial of what human society entails. Just as every work of art of mankind, whatever is the message intends to convey, would have no reason to exist if that meant not being transmitted. I greatly appreciate the quality of this music, but the too much extremes of lyirics at times seems superficial and stereotypical. This does not mean the quality of an album like "Protest Against Humanity", and that it embodies: a wild, carnal epiphany. All on the rise. (Damiano Benato - Translation by Zifir)

(Kunsthauch)
Voto: 80

Hexvessel - Dawnbearer

#PER CHI AMA: Folk, Avantgarde, Code, Virus, Beyond Dawn
Chi già possiede familiarità con il cosiddetto metal d’avanguardia, non tarderà a riconoscere il protagonista di questo insolito progetto artistico, in cui convivono folclore, rock acustico e musica rituale. Voce e mente degli Hexvessel appartengono infatti a Mathew Joseph McNerney, meglio conosciuto come Kvohst, artista poliedrico che ha già prestato i suoi servigi per band quali Code, DHG e Virus, principalmente come cantante, ma altre volte come semplice autore dei testi. Se la formazione di questo singolare talento di origini britanniche risiede principalmente nel metal, di tutt’altra matrice è il contenuto musicale di “Dawnbearer”, album che raccoglie una serie di brevi ballate dal carattere intimo, poetico ed ispirato ad una tradizione rock-psichedelica che per stessa ammissione del gruppo ritrova un’affinità stilistica con band quali Changes, Woven Hand, Espers, Midlake e Comus. Ad onor del vero, rispetto alle formazioni appena citate gli Hexvessel sembrano voler ricercare un approccio più oscuro e permeare le proprie composizioni di un’aura trascendente, coniugando il lirismo occulto delle parti vocali ad arpeggi di chitarra acustica che paiono aver trovato l’ispirazione dal diretto contatto con la foresta e i suoi segreti più nascosti. In “Dawnbearer” arde un fuoco arcano e non è solo la chitarra a creare un’atmosfera così suggestiva, perché Kvhost è qui coadiuvato da un ensamble di musicisti che accrescono la bellezza di ogni brano con l’uso di innumerevoli strumenti tradizionali quali il dulcimer, il violino, il gong, l’armonium, la cetra, il salterio, l’arpa, il mandolino, il banjo e il bandoneon. Un’elencazione che potrà sembrare tediosa ma che può far intuire quale caleidoscopio di luci ed ombre l’album riesca a tratteggiare. Non è semplice individuare un brano che emerga in maniera particolare tra i quindici che compongono l’album, ma forse un commento particolare lo merita “The Tunnel at the End of the Light” che vede Kvhost partecipe di un mistico duetto vocale con Carl-Michael Eide (aka Czral) della progressive-rock band Virus. (Roberto Alba)

(Svart Records, 2011)
Voto: 75

Battle of Britain Memorial - The Aftermath of Your Bright Beings

#PER CHI AMA: Post Rock, Screamo, Mogway
Iniziamo questa recensione con un plauso speciale alla cover cd di "The Aftermath of Your Bright Beings" a dir poco spettacolare, con un contrasto di colori meraviglioso, dovuto anche al digipack cartonato che ne enfatizza il risultato finale. Insomma si capisce fin dal primo impatto, che la band francese è alla ricerca di qualcosa di assai raffinato. Faccio partire il cd e quello che sento, riesce a mettermi subito a mio agio, con suoni tipicamente post, che tanto vanno in voga nell’ultimo periodo. E allora ecco che mi accomodo sulla mia poltrona d’ascolto e mi faccio investire dal vortice sonoro di questo combo transalpino che si è formato solo recentemente, nel 2009 e oggi se ne esce con un prodotto degno di una band veterana. Accennavo alla loro proposta, una miscela di intimistico post metal, unito alla trasgressione dell’hardcore e la rabbia dello screamo. Dopo il benvenuto di “Welcome to Rapture” ecco le urla disumane di “Metaphysics of the Lighthouse” ad aprire il secondo pezzo, che si stagliano su un tappeto decisamente post rock: il sound che giunge alle mie orecchie infatti è assai rilassato, toccante e passionale, dove fanno capolino anche le vocals eteree di una gentil fanciulla che provano a spezzare la sgraziata ma efficace performance del vocalist Ludo. Tocchi di tamburo e piatti accompagnati da una flebile chitarra ci aprono le porte a “Those Who Hide Their Plight”, dove Ludo questa volta, si presenta in versione pulita, anche se avverto una certa forma di disagio su questo genere di tonalità, soprattutto mi sembra faccia molta più fatica quando si spinge verso un registro più alto (lo preferisco nella sua versione screamo); la song si muove in territori costantemente votati al post rock intimistico dei maestri Mogway. Ancora la batteria ad aprire una traccia, con le plettrate malinconiche della sei corde in sottofondo: è la volta di “Cum Tacent Clamant” che palesa in modo evidente la vena inquieta che permea l’intero lavoro del quartetto di Tolosa. La musica non è mai cattiva, mantenendosi costantemente su un registro pacato (nel quale la batteria gioca un ruolo chiave) e pervaso di nostalgia, grazie ad un lavoro egregio alle chitarre; ciò che finisce per incattivire la proposta del combo francese è senza ombra di dubbio la performance al vetriolo del buon Ludo, che tuttavia non infastidisce più di tanto. La creatività della band, il gusto per sonorità ricercate, capaci di scavare nell’intimo umano, le atmosfere soffuse (si ascolti la melliflua “Midnight Blue”), la genialità palesata in alcuni frangenti, ci consegnano una band dalle idee chiare, che merita la vostra attenzione. Amanti di sonorità “post” (rock, metal, hardcore, sludge) fatevi dunque sotto e date un chance ai Battle of Britain Memorial, non ne resterete delusi, parola del vostro Franz: rabbia e dolcezza si sposano alla grande nelle note di questo disco. Ah, dimenticavo la cosa più interessante: il cd è scaricabile gratuitamente al seguente sito: http://battleofbritainmemorial.bandcamp.com/album/the-aftermath-of-your-bright-beings I Battle of Britain Memorial sono assolutamente bisognosi di un vostro ascolto! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

lunedì 20 giugno 2011

Who Dies in Siberian Slush - Bitterness of the Years that are Lost


#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, My Dying Bride, Anathema
Rieccoci alle prese con la Solitude Productions e immagino che ormai anche voi come me, avrete già capito che cosa potrà racchiudere, a livello musicale, questo cd dalle tinte chiaro e oscure, addirittura fin dalla sua minimalista cover completamente in bianco e nero. Avete indovinato? Si esattamente, avete risposto correttamente. I russi Who Dies In Siberian Slush propongono un decadente funeral doom. Sorpresi? Io nemmeno un po’, anzi rimango un po’ deluso perché tanto e bene si era parlato del quintetto di Mosca a proposito dei demo usciti negli ultimi anni, mentre ”Bitterness of the Years that are Lost” si presenta come un canonino album death funeral, che fa del classico riffing desolante, pesante e tipicamente doom il suo marchio di fabbrica, fin dall’iniziale”Leave Me” sino alla conclusiva title track. È chiaro (fortunatamente) che ci siano dei picchi di interesse come l’apertura della prima traccia affidata ad un malinconico pianoforte e un riffing ancora una volta preso in prestito dai primissimi lavori di My Dying Bride e Anathema, quasi ci fosse nell’ultimo periodo, il desiderio dilagante di riprendere sonorità ormai andate e riproporle fino alla disperazione. Cosi come riportato nel nome della band, “Slush” (melmoso), il sound dei nostri si presenta molto statico, monolitico nel suo incedere, anche se per spezzare quella monotonia di fondo, l’ensemble moscovita, si gioca la carta della melodia, provando a rincorrere (con poco piglio però) la proposta degli svedesi Draconian, ma li siamo già su alt(r)i livelli. La band le prova tutte per staccarsi dalla rigidità e dal grigiore della propria proposta, quasi come se si fosse accorta di averla fatta grossa e cerchi rimedio in un intermezzo acustico di un pianoforte o in quello di un arpeggio di chitarra. L’atmosfera permane cupa e tenebrosa, con un senso di disagio interiore che continua a crescere lungo i 45 minuti di questo album di debutto. La lunga title track, aperta dal sospiro del vento, ci apre a gelidi paesaggi invernali, quelli tipici della tundra siberiana, con la sezione ritmica che finalmente si gode qualche inatteso sussulto, e la voce di E.S. che si districa tra un growling animalesco e qualche parte sussurrata. ”Bitterness of the Years That Are Lost” non sarà certo un lavoro che rimarrà negli annali del genere funeral, tuttavia è un cd che gli amanti di sonorità depressive e malinconiche dovrebbero avere nella propria discografia. Infelici. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

domenica 19 giugno 2011

Canaan - Contro.Luce

#PER CHI AMA: Cold Wave, Colloquio, Neronoia, Monumentum
E’ un ritorno inaspettato quello dei Canaan, band italiana per la quale il termine “culto” non risulta improprio, in quanto ha coltivato fin dagli esordi del proprio cammino (incominciato nel 1996) una serie di qualità artistiche tese alla ricerca dell’unicità, dell’eleganza e dell’eccellenza compositiva, sempre e tenacemente incurante dei modesti riscontri commerciali che sono tipici della musica di genere come l’ambient e la dark-wave. In passato, con album come “Brand New Babylon” e “A Calling to Weakness”, Mauro Berchi e i suoi fidati compagni di viaggio hanno dato luce a due perle di grigio fulgore, toccando quello che ad oggi può essere riconosciuto come l’apice della loro carriera e solo con l’uscita del penultimo episodio “The Unsaid Words”, risalente al 2006, la band ha probabilmente incontrato la prima flessione creativa, consegnando alle stampe un lavoro leggermente sotto tono che ricalcava in maniera meno ispirata gli stessi umori e le stesse sfumature del suo predecessore. Congelati in un serrato silenzio per quasi cinque anni dalla pubblicazione di “The Unsaid Words”, i Canaan tornano dunque con un album inatteso, che tale può essere definito anche per una nuova linfa espressiva, densa di elementi inediti che manifestano una band rinnovata, rinvigorita da uno slancio stilistico fino ad ora inesplorato. Permane la vena “cantautorale” e poetica che ormai da tempo accompagna le composizioni del gruppo, ma è il timbro e lo stile vocale di Mauro che si avverte come profondamente diverso, forse perché meno greve e sofferto di un tempo o più semplicemente per la conquista di una piena maturità interpretativa per la quale risulta d’obbligo spendere un elogio sincero. Rimangono invece immutati gli intermezzi strumentali che come d’abitudine spezzano i brani cantati e impreziosiscono “Contro.Luce” delle consuete suggestioni etniche ed ambient-industriali. Le nubi che affollano la mente di Mauro non sono ancora del tutto dissolte, mentre il dolore e il rimpianto continuano a riaffiorare dai ricordi del passato, tuttavia si avverte un nuovo modo di affrontare le avversità, con la dignità di chi sa soffrire in silenzio, non escludendo che tenui bagliori di speranza ci portino finalmente a respirare un alito di vita. Un sorriso di una persona cara o il volto ingenuo di un bambino possono allora ridestare emozioni di conforto e tenerezza, arginando anche solo per un istante le afflizioni. Nell’ascolto di “Contro.Luce” si percepisce questa lenta rinascita e la musica si muove all’unisono con le sensazioni trasmesse dalle parole, aprendosi a soluzioni che talvolta stupiscono per la loro sinuosità e “leggerezza”. A testimonianza di questa evoluzione vi sono canzoni come “Noia” e i suoi toccanti interludi di voci femminili mediorientali, gli energici e repentini cambi di ritmo in “Terrore” e i riverberi possenti delle chitarre in “Oblio”. Altri brani ripercorrono i plumbei canoni della produzione passata, ma sempre con quella rinnovata freschezza che dona un valore aggiunto all’intera opera e suscita nell’ascoltatore una commozione autentica. Grazie Mauro, grazie Canaan. (Roberto Alba)

(Eibon Records)
Voto: 75

giovedì 16 giugno 2011

Amber Tears - The Key to December

#PER CHI AMA: Death/Doom, Anathema e My Dying Bride
Vedendo la copertina del cd degli Amber Tears, ho pensato per un attimo di avere tra le mani qualcosa di power/folk, a causa del vecchio col bastone, raffigurato sul booklet, che cammina tra la neve; non so spiegarvi per quale motivo abbia immaginato questo, ma l’immagine della cover ha suscitato in me tale infondato timore. Vedendo poi la casa discografica sul retro della custodia, la BadMoodMan Music, mi sono tranquillizzato e ho pensato che sicuramente la proposta del combo viaggerà all’interno dei confini death/doom. E in effetti non mi sono sbagliato. Dopo una inutile intro, si passa a “Gray Days Eternity” in grado di confermarci immediatamente che il sound partorito dall’act russo è realmente un death doom cadenzato, che ancora una volta si rifà ai classici del passato (Anathema e My Dying Bride su tutti); a volte mi domando dove la Solitude Production vada a scovare tutte queste band e se forse, il fossilizzarsi troppo in un unico genere, non rischi di penalizzare l’etichetta russa. A farmi passare questi brutti pensieri, ci pensa il sound degli Amber Tears, che nelle loro otto tracce, ci presentano la loro proposta che, pur puzzando di già sentito, si lascia piacevolmente ascoltare; vuoi per la presenza di strumenti etnici in alcune tracce (è forse una cornamusa quella che si sente qua e là nel disco?), forse per le intriganti melodie pagane o per gli intermezzi acustici della terza “Away from the Sun”, o ancora per la dinamicità inaspettata di un lavoro che pensavo potesse annoiarmi dopo pochi minuti, mi lascio trasportare dal piacevole (talvolta toccante) feeling che questa release è in grado di emanare. Effettivamente ho sbagliato, giudicando superficialmente. Gli Amber Tears non garantendo nulla di innovativo, ma semplicemente rileggendo, in chiave moderna, i dettami di vent’anni fa dei grandi maestri inglesi, ci offrono un prodotto di sicuro interesse, ben confezionato, e che di certo farà la gioia dei fanatici di questo genere e non solo. Forte nei solchi di "The Key to December" anche l’influenza dei danesi Saturnus, che appaiono assai spesso come fonte di ispirazione, quando ci si trova a parlare di sonorità di questo tipo. Il feeling malinconico che si respira nell’arco dell’intero lavoro è mitigato dal riffing corposo del duo di asce formato da Alexey e Dmitry. La prima metà del cd, scorre via tra echi nostalgici di suoni di metà anni novanta e ispiratissime melodie che richiamano la tradizione scozzese, quasi mi ritrovassi proiettato sulle Highlands scozzesi e attorno a me il solo verde dei prati e delle colline con il vento a sibilare nelle mie orecchie. È un senso di pace che mi godo lassù tra le nuvole che si appoggiano su quelle sinuose alture e la colonna sonora perfetta è proprio quella degli Amber Tears, che muovendosi tra death/doom e strepitosi passaggi acustici (ascoltate “Like a Silent Stream” e ditemi che ne pensate) riescono a donarmi 40 minuti di palpabili emozioni. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

martedì 14 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse - English

#FOR FANS OF: Cyber Death, Industrial, Progressive
The fact that I have been following The Project Hate for a long time now, can be proved by the review of the old "Armageddon March Eternal" on these very own pages. I find myself here again to write about the band of Lord K. Philipson and his members, and I do it again with extreme pleasure, because it has been ten years now that for me, The Project Hate have been synonymous of high quality. And this "Bleeding the New Apocalypse" is nothing but that, but whose output has passed a bit quietly in the media (and perhaps also to the fans), and so from my part I want to give a little emphasis of this new release; I am here to give my support to one of the bands that I admire the most: I sit at my desk, I turn on the PC, insert the CD and I am off to listen the new "Bleeding the New Apocalypse," their eighth album, including the Deadmarch parentheses. Well, there must have been eleven years since the brilliant debut of the Scandinavian act, but the sound is not at all changed since then, and this is not intended as a criticism of the four member band, in fact I would like to reward their coherence and consistency in the passing of the years. The background sound system is still that of the seminal Swedish death (Grave and Dismember), in which gradually elements of any type are insinuated, from industrial cyber death through progressive, making extensive use of electronics and playing, usually, with the duality between the growling vocals of Jorgen Sandstrom and the angelic vocals of the Portuguese Ruby Roque, who replaced alas, the much better Enckell Jo. As always, guests are not lacking, and this time to help The Project Hate, you will find Leif Edling of Candlemass, the omnipresent Mike Wead (which we saw recently in Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) and Christian Ivestam (ex -Scar Symmetry). The result of this marriage? Crazy as ever, to the point of certifying the high quality of the Swedish band, beginning with Season of Mist, amongst others. Always characterized by a few and very long tracks, this release is not far from that, with six pieces for a total of 65 minutes of wild, psychotic music, with very complex structures, yet very melodic, thanks to the constant divine use of the keys and persuasive moments when Ruby delights us with her singing, although less convincing than the previous one, Jo. From a technical standpoint, the band confirms itself at high levels, stronger even by the new drummer, the explosive Tobias Gustafsson (Vomitory) and a rhythmical key work and solos which proves sublime. Difficult to indicate a piece rather than another (although I have chosen "War Summoning Majestic" as my favorite song), because all could play the role of the most successful song from The Project Hate. Well I think that you may have guessed by now, I really liked the "Bleeding the New Apocalypse" , for its ability to fuse the wild death rhythms made in Sweden, with sounds alien to the northern extremes of Europe, such as gothic, progressive and electronic perennially with great evidence. The songwriting is excellent, almost as excellent as is the production with all the instruments well balanced with each other and a sound really very full and effective that will push me to elect this work in the bests of 2011. A delightful confirmation, but I had no doubt over that , The Project Hate, as unjustly snubbed by critics and fans, represent for me one of the most interesting and charismatic bands on the international scene. (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Season of Mist)
Rate: 85

Ulver - Wars of the Roses

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ambient
Tornano gli Ulver con un prodotto nuovo di zecca, con una casa discografica nuova di zecca, la Kscope music, e l’ennesimo album in grado di stravolgere ogni regola in casa di Kristoffer Rygg (alias Garm) e soci. Si parte con “February”. Le sue ridondanze pulsanti richiamano il sangue dalle vene. Cuori adrenalinici, ipersaguigni, fibrillanti, si scagliano sulle casse dai volumi esagerati per farsi violare i timpani da questo primo brano. È un esordio audace, con un Garm in grande spolvero, non sufficiente però a compensare il trapasso a sonorità vagamente anni ’80, che fanno perdere il potere alla tribalità elettronica dell’inizio. Passo a “Norwegian Gothic” e mi ritrovo catapultata in mezzo agli alberi sul fare della sera. Cammino tra i fuochi che si spengono intorno a case abbandonate. Il senso di inquietudine mi avvolge per amplificarsi in quelle che credo siano urla segregate tra mura di castelli medievali. La voce si conferma di grande spessore, vorticosa e ritmata, mentre vertigini strumentali pregnano l’ascolto di questo secondo pezzo, a cui non si può negare d’essere assai evocativo. È la volta di “Providence” dove accanto alla calda tonalità del vocalist compare l’eterea voce di Siri Stranger, in una cavalcata emotiva in cui trovano posto improbabili violini, un infausto clarinetto e Attila Csihar come guest star nella parte vocale. Parte la musica di “September IV”. L’ascolto. Mi fermo. Controllo che il brano sia del cd che sto ascoltando. Le sonorità sono diverse dalle altre tracce. La voce morbida e penetrante, gli stacchi più sensuali e decisi, con il sound che richiama una danza rituale, una promessa, un grido. Coinvolgente. Ecco “England” e l’atmosfera fattasi più rarefatta, mi spinge alla spasmodica ricerca di ossigeno. L’aria è frustata da onde sonore imperfette. Il cantato di Garm si fa dominante, rabbioso, ripetitivo, quasi robotico, con le parole aggrovigliate su se stesse, imprigionate tra distorsioni e percosse a casse inermi. Il brano si rivela antidoto ideale per pulsante rabbia repressa. Le melodie suadenti e disturbanti emergono forti in “Island”, song che fa riaffiorare il passato ambient della band norvegese, prima della lunga conclusiva “Stone Angel”. L’inizio del brano mi proietta davanti ad uno specchio al buio, mentre attendo che la luce di una candela possa presto illuminare la stanza. Il prologo di suoni, lo specchio, si interseca ad un parlato, quello di Daniel O’Sullivan che interpreta un testo del poeta americano Keith Waldrop. Gli occhi continuano a puntare lo specchio nella tragica inevitabilità di guardare se stessi. Risultante, un ipnotico viaggio al centro delle proprie paure. Finisce qui il nuovo album targato Ulver, ora a voi il compito di ascoltarlo e descriverne le suggestioni che vi affioreranno. Da ascoltare ad occhi chiusi. (Silvia Comencini)

(Kscope)

domenica 12 giugno 2011

Talbot - Eos

#PER CHI AMA: Doom, Psichedelia, Stoner, Cathedral, Electric Wizard
Ho ricevuto il promo di questa stuzzicante release e successivamente sapete cosa ho fatto? Sono andato sul sito dell’etichetta russa Slow Burn Records ed ho acquistato il cd del duo estone, senza alcuna esitazione e questo sarà quello che al termine di questa recensione vorrei suggerirvi di fare. Intro doomish affidata a “Threshold”, il cui riffone di chitarra viene ripreso anche dalla successiva “Cayenne”, che ci spara in faccia un sound che sembra saper coniugare alla grande gli insegnamenti dei primi Cathedral (riffs granitici e ultra slow) con lo stoner degli Electric Wizard, e con la voce di Magnus Andre che si diletta tra il growling più cavernoso e quello pulito (in taluni momenti addirittura cyber, per l’uso dei riverberi), mentre la musica perde ben presto quella sua linearità iniziale per aggrovigliarsi su se stessa in una delirante psichedelia, qui amplificata alla grande, dall’ampio spazio concesso ai sintetizzatori e dall’uso di chitarre dal forte flavour seventies. Con i minuti iniziali di “Observer X” vengo inglobato dalle visioni allucinogene della band di Tallin, come se mi spingessi pericolosamente in un viaggio di esplorazione spirituale, ovviamente solo dopo essermi calato pesanti dosi di acido lisergico. Cosi come accadde a Homer Simpson in una puntata del noto cartone animato americano, in cui il protagonista, dopo essersi mangiato un peperoncino super allucinogeno, ha delle visioni completamente distorte della realtà, e il suo spirito (un coyote) gli suggerisce come affrontare la vita, allo stesso modo, Magnus e Jarmo, ci prendono per mano e ci conducono alla ricerca di noi stessi attraverso la loro proposta musicale estremamente interessante. L’eco dello space rock emerge fortissimo nella breve title track, per poi lasciare il posto alla lunghissima (più di undici minuti) “Combat Zen Speech” che come una danza tribale attorno ad un grande fuoco, con i tamburi che picchiano ripetutamente, ci persuade ad abbandonarci alla sacralità della cerimonia, contraddistinta dal forte odore dell’essenze che saturano l’aria e di conseguenza le nostre menti. Ragazzi che botta, neppure l’uso delle droghe più forti del mondo, credo possa spingerci in un trip del genere, dove il battito del cuore accelera in modo pauroso, seguendo l’intensità sonora di questo “Eos”, il respiro si fa quanto mai affannoso e inaspettatamente ci ritroviamo barcollanti con i sensi totalmente alterati. Pur non essendo un amante di questo genere musicale, mi sono lasciato andare alla proposta dei Talbot, sono stato conquistato dall’impatto forte che ha avuto sui miei sensi, e ne sono rimasto da subito affascinato. Ultima nota da segnalare, oltre all’ottima produzione, è che il cd è stato rilasciato in versione digipack limitata alle prime 500 copie. Deliranti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85

sabato 11 giugno 2011

The Interbeing - Edge of the Obscure

#PER CHI AMA: Cyber Death, Djent, Meshuggah, Fear Factory
La Danimarca non è famosa solo per aver dato i natali ad Amleto, King Diamond o Lars Ulrich, ma anche per avere una florida scena underground che consta di nomi più o meno famosi, come Mercenary, Raunchy, Mnemic e ora questi ultimi The Interbeing, che in realtà esistono fin dal 2001, ma che solo quest’anno sono giunti al tanto sospirato debutto (non considerando l’EP del 2008 autoprodotto, “Perceptual Confusion”). ”Edge of the Obscure” ha il tipico marchio di fabbrica danese, con le sue chitarre ribassate stracariche di un groove contagiante; è un sound che si rifà ai soliti mostri sacri, Meshuggah e Soilwork in primis, ma che comunque brilla di luce propria, grazie alla vivacità intrinseca del quintetto scandinavo. Uno due e tre, e si parte dopo la consueta intro, con “Pulse Within the Paradox”, in grado fin da subito di mettere in chiaro qual è la proposta del combo: cyber death molto tecnico, grondante di contaminazioni provenienti dall’industrial (Fear Factory docet), ovviamente dal djent, proprio per quelle sue chitarre distorte con accordatura downtuned, ma anche dal progressive, per quel largo uso di ritmi sincopati e poliritmie che rimbombano nei nostri cervelli (ascoltare le scale di “Tongue of the Soiled” per capire di cosa sto parlando), costantemente in compagnia di samples che generano plumbee atmosfere stracariche di un feeling da fine del mondo. Senza dubbio l’elettronica gioca un ruolo da protagonista nelle note di questo brillante lavoro, cosi come non vorrei trascurare la perizia tecnica (assai elevata) dei nostri e il ricercato gusto per la melodia, sempre in primissimo piano e di grande spessore. Le voci corrosive, seguono la scia dei connazionali Raunchy e Mnemic, anche se molto spesso Dara Toibin si lascia andare a clean vocals (fantastiche in “Face Deletion”), sussurrate o robotiche (come in “Shadow Drift” o in “Swallowing White Light”). Trattandosi di cyber death, è lecito non attendersi eteree vocals femminili: cosi quando leggo che “In the Trascendence” c’è come ospite Elin Kristina Segel ho un sussulto, ma tranquilli perché trattasi di una voce cibernetica al femminile, a sancire la definitiva ecletticità di questi danesi. Se il tipico sound scandinavo che rappresenta la matrice di fondo dell’ensemble danese, alle orecchie dei più non rappresenta nulla di nuovo, vi garantisco che l’apporto dei synth nell’economia della release in questione, assume un ruolo fondamentale (meraviglioso il break centrale di “Fields of Grey”). Sono a dir poco entusiasta dal dinamismo di questi sconosciuti The Interbeing, che da oggi seguirò con molta attenzione, per poter capire quali siano le reali potenzialità in vista dei prossimi lavori. Per ora il mio voto si ferma a 80, perché il sound può risultare ancora derivativo, ma sono certo che con le giuste dritte, l’esperienza e le funamboliche idee, i The Interbeing calcheranno il palcoscenico metal per lungo tempo. Una bombastica produzione e un eccellente songwriting completano un lavoro da cui è lecito aspettarsi un successo oltre le attese. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

(Mighty Music)
Voto: 80

giovedì 9 giugno 2011

Injury - Unleash the Violence

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Testament, Exodus
Credo che il thrash metal sia un entità immortale: mai una flessione, mai un momento di crisi, sempre migliaia di band a proporre una genere musicale che difficilmente riesce a produrre qualcosa di nuovo o innovativo, un genere che si evoluto dai demotapes ai vinili, per arrivare fino ai cd o al download digitale (e far di nuovo ritorno ai vinili); eppure a distanza di trent’anni dai primi lavori di Metallica, Slayer e Megadeth, nel lettore del mio stereo gira ancora del sano e incazzatissimo thrash metal. E che dire che già non sia stato detto di un tipo di musica sulla quale sono state già spese milioni di parole? Bah, non saprei; però partiamo col dire che gli Injury sono una band italiana e la cosa mi rende fiero alla luce del buon risultato finale. Ottima la base di partenza, data da una super produzione che esalta alla grande lo sfrenatissimo headbanging che “Unleash the Violence” riesce ad emanare, contribuendo in modo sostanziale allo scarico della adrenalina, dopo l’ennesima pesantissima giornata lavorativa. Volume a manetta, sound tipico della Bay Area (quell’assolo di “Busy Killing” non richiama forse i primi Testament? E quel riffing corposo e nevrotico di “Violence Unleashed” non vi riporta con la mente ai primi Exodus?), ritmiche incalzanti, assoli taglienti ma sempre melodici, look anni ’80 e cosa volete di più dalla vita? C’è chi direbbe un Lucano, ma a me basta questo sound; mi godo il mio tuffo nel passato e trascorro un’armoniosa serata in compagnia della musica degli Injury, che mi fanno sentire di nuovo giovane e mi ricordano quando anche il sottoscritto sfoggiava quel look un po’ trasandato e ribelle, circa vent’anni fa. Bravi ragazzi ad aver sfoderato questa genuina prova con il vostro platter di musica sincera e brava la Punishment 18 Records che continua nella sua ricerca di realtà poco affermate, che qualcosa di interessante, hanno da proporre. Certo, “Unleash the Violence” non sarà il disco dell’anno, però tutti gli amanti del thrash d’annata, quello della costa ovest degli Stati Uniti per intenderci (senza dimenticare tuttavia quei fantastici coretti alla Over Kill di “Under the Influence”), un ascolto attento lo dovrebbero concedere a questa release. Un plauso anche alla copertina, che in realtà mi sembra più orientata verso al death metal, con tutto quel rosso che non fa altro che richiamare il sangue. Morbosi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

Blindead - Devouring Weakness

#PER CHI AMA: Sludge, Isis, Neurosis, Cult of Luna
Andiamo a scoprire, quello che fu il debutto discografico di una delle più interessanti realtà polacche nell'ambito sludge doom. Dopo gli ottimi insegnamenti di Neurosis, Isis, Pelican e Cult of Luna, tanto per citarne solo alcuni, il 2006 segna l'esordio, sulla lunga distanza, dei polacchi Blindead. In circolazione già dal 1999 e con tre demo all’attivo, rilasciano per la connazionale Empire Records questo “Devouring Weakness”. Sei lunghi brani per un totale di 44 minuti di suoni angoscianti, pachidermici, asfissianti, in cui è il quel senso di vuoto incolmabile, che caratterizza questo genere, a prevalere inevitabilmente al termine dell’ascolto dell'ascolto. Solo i titoli dei pezzi sono indicativi per ciò che riguarda i contenuti, sia emotivi che lirici, delle sei tracce qui comprese: suicidio, desolazione, senso di sconforto e depressione sono infatti alcuni dei temi trattati all’interno di “Devouring Weakness”. Le tracce, tutte molto simili tra loro, sono contraddistinte da pesanti riffs di chitarra, sui quali si stagliano le vocals gutturali di Nick, molto simile, per alcuni versi, al suo collega ben più famoso dei Cult of Luna, anche nella sua versione più intimista e riflessiva. Anche il sound si può avvicinare a quello della band svedese, la differenza risiede nella classe dei master scandinavi, nel costruire brani più articolati e atmosferici. I Blindead, da questo punto di vista, sono ancora un po’ acerbi e lontani anni luce, dai gruppi succitati. Però, se siete amanti di questo genere di sonorità, così malate, marziali, ripetitive, oscure e suicide, un ascolto è caldamente consigliato, nonostante il mio voto si sia mantenuto così basso. Di sicuro gli album successivi dei Blindead mi hanno dato ragione e mostrato quale caratura tecnica risiede nelle corde di questo eccitante combo polacco. (Francesco Scarci)

(Empire Records)
Voto: 65

Nickelback - All the Right Reason

#PER CHI AMA: Pop Rock
Un paio d'anni di duro lavoro, e i Nickelback se ne vengono fuori con il quarto studio album. "All the Right Reason", è il nome dato a questo capolavoro (definito cosi da molti, ma non dal sottoscritto) che apre le porte ai tanti fan con un mix di suoni che variano dal pop rock molto soft, ad un rock più intenso e duro. Con questo album , Kroeger e soci, hanno cercato di levarsi di torno l'etichetta di band commerciale che molte volte (e non ingiustamente) gli è stata affibiata. Undici canzoni per un album per certi versi strano, infatti ad alcune di queste non si riesce a dare un giudizio ben preciso. In questa release troviamo il singolo "Far Away", che ha giocato un ruolo importante nella carriera dei nostri, perchè entrato nella top ten americana, addirittura alla posizione numero 8. Una lenta ballata made in Nickelback, che ha fatto capolino nelle radio di tutto il mondo, e sopratutto nelle teste dei fan, perchè una delle belle caratteristiche di questa band è di creare dei singoli che riescano a rimanere impressi nelle nostre menti. Il rock duro lo troviamo in "Follow you Home"; un ritmo molto coinvolgente con un testo, che rende altrettanto bella la canzone, in un mix tra un film d'azione in stile "Die Hard" e una piccola aggiunta del loro solito romanticismo che molte volte declassa i loro lavori. Resta una canzone apprezzabile anche se dopo il terzo ascolto stufa. I Nickelback, che in questi anni hanno guadagnato una buona fama e un buon posto tra le migliori band pop rock, una bella mossa se la deve comunque dare se vuole arrivare ancora più in alto. (Alessandro Vanoni)

(Roadrunner Records)
Voto: 65

mercoledì 8 giugno 2011

The Camp Hours - Wise as a Tree

#PER CHI AMA: Alternative, Rock
Ridurre i The Camp Hours (TCH) a gruppo alternative/rock/pop come descritto da loro stessi nel Myspace, mi sembra alquanto semplicistico. Certo, classificare i gruppi oramai è una mania ma se voglio dirvi qualcosa dei TCH, meglio citare qualcuno che calca la scena che possa accendere una luce nella vostra mente. Se dico Pink Floyd, Porcupine Tree, Radiohead, etc., vi state strappando i capelli? Beh, qualche influenza effetivamente c'è ma non aspettatevi una mera copia dei sopracitati perchè i TCH sono molto di più. La qualità del lavoro prodotto è alta, a partire dalla produzione fino agli arrangiamenti, dopo tutto i musicisti non sono degli sprovveduti e qualche capello grigio (per chi ha la fortuna di vederli spuntare) ce l' hanno. Restando in campo tecnico, il digital recording appiattisce fin troppo le sfumature rock/prog e molti pezzi mancano di dinamica. Sarà la mia fissa ma un passaggio nel buon vecchio analogico l'avrei fatto, i pezzi ne avrebbero giovato sicuramente. Comunque la sostanza c'è e posso dire che pezzi come "A Liquid Sky" e "Falling Down" tracciano un profondo solco negli animi rock utilizzando melodie a volte psichedeliche, a volte graffianti e malinconiche come solo pochi sanno produrre senza cadere nel banale o scontato. Il vocalist (nonchè chitarre, synth e molto altro) non dimostra un'estensione vocale degna di nota ma cerca di utilizzare al meglio la sua timbrica per rimarcare i passaggi più eterei e gli incisi classicamente rock. Pecca nella pronuncia anglosassone ma non soffermiamoci a questi dettagli, dopotutto noi italiani ci porteremo questo peso ancora per molto tempo. Il risultato è quello che è, nel senso che rischia di annoiare alla lunga e ci porterebbe a desiderare quanche parte strumentale in più. Tuttavia le doti strumentali sono invidiabili, considerando che tal Carlo Di Buono si occupa di gran parte della sezione strumentale dei TCH. Batterista (Francesco Filardo) e bassista (Francesco Amendola) completano al meglio il trio. L'utilizzo di synth ricercati ed effettistica varia su voce e chitarra, dimostra l' attenzione dei TCH alla cura dei particolari e all' atmosfera che deve scaturire dalle singole tracce."The Road To London" è un pezzo che risulta molto influenzato dalla vena brit pop di qualche anno fa, con sonorità alla U2 e Cold Play. Per quanto riguarda le altre tracce, tutto è al posto giusto, ben equilibrato, basta solo saper apprezzare il genere. Quindi, a chi consiglio i TCH? Dai nostalgici della Pantera Rosa a chi trova i nuovi Radiohead troppo alternativi, oppure solamente per fare da intermezzo ai cd più cattivi del buon Franz. (Michele Montanari)

(Vacation House Records)
Voto: 75

Lingua - All My Rivals are Imaginary Ghosts

#PER CHI AMA: Post Rock/Indie, Tool, Dredg
Recensire questa band è un po’ come ritrovare dei vecchi amici che non vedevi da tempo, eh si perché grande fu la sorpresa quando nel 2006 ascoltai per la prima volta il disco di debutto di questi svedesoni Lingua, poi diversi passaggi in radio, i primi contatti con la band e infine l’aver contribuito, in un qualche modo, alla firma da parte del combo scandinavo con la nostrana Aural Music. Ed ecco poi finalmente arrivare il nuovo lavoro nelle mie mani. Devo ammettere di averci messo un bel po’ di tempo prima di decidere di recensire “All My Rivals are Imaginary Ghosts”, perché fino all’ultimo mi sono chiesto se il mio contributo potesse essere utile alla causa dei Lingua o se forse sarei stato troppo fazioso nei loro confronti. Chi se ne frega mi sono detto, ho rotto gli indugi ed ecco a parlarvi della seconda release dei nostri, nel modo più obiettivo possibile. E vorrei proprio esordire dicendo che il primo album, mi aveva impressionato molto di più del qui presente, a dimostrazione che le mie parole saranno quanto mai sincere. Sebbene le palesi influenze “tooliane”, “The Smell of a Life That Could Have Been” ci aveva consegnato una band dal suono fresco e originale, con un vocalist dotato di una sorprendente tonalità vocale. Nel nuovo corso, la band scandinava sembra aver ammorbidito il proprio sound, mettendo da parte le reminiscenze post metal che emergevano di tanto in tanto nel debutto e proponendoci uno stile pur sempre riconoscibilissimo, ma un po’ più ruffiano, complice anche il fatto di aver prodotto brani più brevi e diretti. La ritmica iniziale di “Leave us Yours” è arrogante, palpitante nel suo pezzo centrale, con il cantato di Thomas sempre assestato ad alti livelli, e pronto ad annunciare la seconda “It’s a Massacre”, prima vera hit (dal ritornello super canticchiabile), che sembra essere stata concepita da una band indie piuttosto che metal, ma a chi importa. Anche la terza song viaggia su un oscuro binario mid-tempo, che fa dell’eccellente estensione vocale di Thomas il suo punto di forza. Pian piano i nostri vengono fuori e il primo pezzo Lingua style, che ricalca quanto sentito nel precedente lavoro, è sicuramente “It’s There, it’s Life”: si tratta di un bel pezzo ritmato, malinconico, efficace, si mi piace parecchio. Si procede e anche con ampio interesse: un altro esempio di come siano diventati semplici ma estremamente incisivi i Lingua di oggi è offerto da “Prodigal Son”, forse il pezzo più tirato delle 14, con quel suo tocco quasi punk, che emergerà anche nella parte centrale e più incazzata di “Centerpiece”. “I’m Not” riprende ancora una volta i Tool, mescolando il sound della band californiana con un certo dark anni ’90 della scena inglese e il risultato è più che buono. La band di Stoccolma continua a sorprenderci con brillanti trovate: è il caso della tribale “Cobalt Sky” che attacca con una litania che pare estrapolata quasi da un cerimoniale voodoo: ne sono profondamente attratto, ipnotizzato dalla litania reiterante del vocalist e dall’oscura melodia di fondo; un brivido percorre il mio corpo quando Thomas inizia a cantare, e quel basso continua a pulsare nelle mie orecchie, e mi spinge ad ondeggiare paurosamente alla ricerca di quel ritmo frenetico che verrà. Eccola, trovata la mia song preferita di questo avvincente cd. Se “All My Rivals are Imaginary Ghosts” fosse finito qui, credo nessuno si sarebbe offeso, anzi. Le ultime song calano un po’ di tono e finiscono per sembrare semplici riempi pista (salvo tuttavia la conclusiva “Disperse!”) per un cd che ci ha regalato diversi frangenti di ottima musica, ci ha confermato che in Svezia non esiste solo il death metal, che i Lingua sono una band di assoluto valore, carisma e personalità, e che voi avete un obbligo da rispettare: non perderli mai di vista! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 75

martedì 7 giugno 2011

Shattered Hope - Absence

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e My Dying Bride
La Solitude Productions continua imperterrita nella sua ricerca di talenti in giro per il mondo, dediti al death funeral doom ed ecco questa volta saltar fuori dalla Grecia questi Shattered Hope (da non confondere con gli omonimi metallers olandesi). La band di Atene, in giro ormai da quasi dieci anni, giunge finalmente al debutto dopo un paio di demo datati 2005 e 2007. La proposta del combo dell’Attica, come avrete capito, è un death doom che si rifà ai primissimi Anathema (quelli di “Serenades” tanto per capirci), sia per la considerevole lunghezza dei pezzi, sia per la plumbea atmosfera che ivi si respira, capace di farci sprofondare nella malinconia più totale, fin dall’iniziale “Amidst Nocturnal Silence”, song dotata di un forte flavour gotico. I primi tre pezzi (per la cronaca in “Vital Lie” compare come guest vocals anche Jo Marquis degli Ataraxie) sono la rappresentazione in musica di uggiosi paesaggi autunnali, caratterizzati da ritmi lenti, ossessivi per la loro ripetitività di fondo, dato da un riffing granitico e dalla presenza di un meraviglioso violino, in grado di regalare quell’aura nostalgica tipica dei My Dying Bride, che emerge ben presto e mi fa apprezzare non poco la proposta del sestetto greco. Arriva il momento di “Yearn” e anche delle mie prime perplessità: si tratta infatti di una song a sé stante, della sola durata di 3 minuti e mezzo, che spinge parecchio l’acceleratore grazie ad un death anonimo, che viaggia su ritmiche abbastanza tirate e con il vocione profondo di Nick a fare il verso a Darren White. Con “A Traitor’s Kiss” ricompaiono fortunatamente le melodie crepuscolari e l’influenza delle band della terra d’Albione si fa ancora più forte, a scapito ahimè dell’originalità, anche se a metà pezzo uno screaming mutuato quasi dal black, prende il sopravvento, con le ritmiche che accelerano paurosamente, ma è solo un attimo perché si ritorna ben presto alle decadenti atmosfere iniziali; qui le vocals riescono addirittura a trovare lo spazio in versione pulita e il sound pesca a piene mani anche dal repertorio dei Saturnus (complice la presenza alla voce di Thomas A.G.) e agli irlandesi Mourning Beloveth. È poi il momento di un intermezzo strumentale, prima dei monolitici 19 minuti finali della conclusiva “The Utter Void”, dove l’aria si fa ancora più rarefatta e stancamente si arriva alla fine di questo “Absence” che ci rivela che una interessante, ma ancora un po’ acerba realtà, si è affacciata nel panorama death doom mondiale. Nostalgici! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Lugga Music)
Voto: 65

domenica 5 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse

#PER CHI AMA: Cyber Death, Industrial, Progressive
Che io segua i The Project Hate da tempo, lo dimostra la recensione del vecchio “Armageddon March Eternal” su queste stesse pagine. Mi ritrovo ancora qui a scrivere della band di Lord K. Philipson e soci, e lo faccio sempre ancora con estremo piacere, in quanto da dieci anni a questa parte per il sottoscritto, i The Project Hate rappresentano sinonimo di grande qualità. Non è infatti da meno questo “Bleeding the New Apocalypse”, la cui uscita è un po’ passata in sordina ai media (e forse anche ai fan), e allora da parte mia, per poter dare un po’ di enfasi a questa nuova release, ecco dare il mio supporto ad una delle band che più stimo: mi siedo alla scrivania, accendo il pc, inserisco il cd e via all’ascolto del nuovo "Bleeding the New Apocalypse", l’ottavo album dei nostri considerando anche la parentesi Deadmarch. Ebbene, saranno anche passati undici anni dal brillante esordio dell’act scandinavo, ma il sound non è per nulla mutato da allora, e questa non vuole essere una critica nei confronti del four-pieces, anzi vorrei premiare la loro coerenza e costanza nell’arco di questi anni. L’impianto sonoro di fondo continua a rimanere quello del seminale swedish death (Grave e Dismember), su cui si insinuano via via elementi di qualsiasi tipo, dal cyber death all’industrial passando per il progressive, facendo largo uso di elettronica e giocando, al solito, sul dualismo tra le growling vocals di Jorgen Sandstrom e quelle angeliche della vocalist portoghese Ruby Roque, che ha sostituito ahimè, la ben più brava Jo Enckell. Come sempre non mancano neppure gli ospiti e questa volta ad aiutare i The Project Hate, ci pensano Leif Edling dei Candlemass, l’onnipresente Mike Wead (che abbiamo visto anche recentemente nei Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) e Christian Ivestam (ex-Scar Symmetry). Il risultato di questo connubio? Quanto mai pazzesco, in grado di certificare la grande qualità della band svedese, all’esordio tra l’altro con la Season of Mist. Da sempre caratterizzati da pochi e lunghissimi brani, anche la release in questione non è da meno, con sei pezzi per un totale di 65 minuti di musica feroce, psicotica, dalle strutture assai complesse, ma al contempo assai melodiche, grazie all’utilizzo sempre indovinato delle keys e dei suadenti momenti in cui Ruby ci delizia col suo cantato, anche se meno convincente della precedente Jo. Da un punto di vista tecnico, la band si conferma ad alti livelli, forti anche di un nuovo batterista, l’esplosivo Tobias Gustafsson (Vomitory) e di un lavoro in chiave ritmica e di solos che si conferma eccelso. Difficile indicare un pezzo piuttosto che un altro (anche se eleggo “Summoning Majestic War” mia song preferita), in quanto tutti si potrebbero giocare la palma di brano più riuscito dei The Project Hate. Insomma credo l’avrete intuito, a me "Bleeding the New Apocalypse" piace parecchio, per quella sua capacità di fondere le ritmiche selvagge del death made in Sweden, con sonorità estranee agli estremismi nord europei, quali gothic, progressive ed elettronica perennemente in grande evidenza. Ottimo il songwriting, cosi come pure eccellente la produzione con tutti gli strumenti ben bilanciati tra loro e un sound davvero pieno ed efficace che mi spingeranno ad eleggere questo lavoro tra i migliori del 2011. Una piacevole conferma, ma non avevo alcun dubbio a tal proposito, i The Project Hate, per quanto ingiustamente snobbati da critica e fan, rappresentano per il sottoscritto tra le band più interessanti e carismatiche del panorama internazionale. (Francesco Scarci)

(Season of Mist)
Voto: 85

Canaan - A Calling to Weakness

#PER CHI AMA: Gothic Dark Ambient
Malinconia e poesia: dall'incontro e dalla fusione di due degli aspetti più nobili dell’animo umano sorge "A Calling to Weakness", composizione di rara intensità, che brilla come una perla incastonata in un cielo di nero disinganno. Tra le uscite della Eibon Records, quelle dei milanesi Canaan, sono sicuramente tra le più prestigiose, testimonianza che anche l'Italia può vantare artisti dalla vena creativa più che mai viva e in grado di creare uno stile personale, assolutamente unico e che, nel caso dei Canaan, è a mio parere decisamente italiano. Diciassette canzoni, 70 minuti di musica vissuta intensamente e pacatamente sofferta, ma mai banale… musica che reclama la nostra attenzione e che cattura il nostro animo, impreziosendolo e arricchendolo di intima delicatezza, commuovendoci e toccandoci nel profondo, fino alle lacrime! Fluidi arabeschi melodici che avanzano flessuosi, sostenuti da morbide parti di batteria e completati da impalpabili strutture di chitarra… e al tutto si unisce e lega indissolubilmente la voce di Mauro, che svela una maturità interpretativa che da "Brand New Babylon" attendeva di emergere e che in "A Calling to Weakness" è perfettamente integrata nel contesto melodico. E' una musica per certi versi eterea, le cui aggraziate trame si dischiudono come i petali di un fiore rivelando le mille sfumature del dolore interiore, della sofferenza che accompagna silente il quotidiano, rendendo opaca ogni visione della realtà, filtrata attraverso occhi che non hanno più lacrime. Ne scaturiscono una forte sensazione di alienazione dal mondo circostante e una ricerca estrema di introspezione, di meditazione sulla propria interiorità e sul valore della propria esistenza. Canaan penetra nelle nostre notti più buie, illuminandole di un tenue riverbero di mestizia, si insinua nei nostri pensieri più tristi, velandoli di rassegnazione e ci accompagna in questo viaggio interiore verso la solitudine eterna. Tuttavia, in taluni momenti si percepisce un'energia forse sprigionata da un improvviso desiderio di ribellione ad una situazione di oppressione e che si impone, sostituendo momentaneamente l’apatia generata da una vita senza aspettative, per poi lasciare nuovamente il passo al vuoto imposto dal grigiore di una pallida esistenza che non regala emozioni. Far menzione di qualche canzone potrebbe sminuire il valore dell'opera, che va catturata nella sua interezza, ascoltandola svelarsi alla nostra anima, mettendo a nudo le riflessioni e i tormenti che l’hanno originata. (Laura Dentico)

(Eibon Records)
Voto: 85

The Project Hate - Armageddon March Eternal

#PER CHI AMA: Cyber Death, Industrial, Black Symph
Cari ragazzi, prendete carta e penna e segnatevi questa release; andate dal vostro negoziante di fiducia e acquistate questo disco; fatte tutto ciò se siete logicamente alla ricerca d’emozioni forti e di musica estremamente originale. Eh sì, perchè i The Project Hate hanno dato alle stampe un lavoro veramente eclettico, interessante ed emozionante. Quello che andiamo ad ascoltare oggi è il quarto album della band svedese (escludendo il live “Killing Helsinki”), band capitanata dal polistrumentista Lord K. Philipson e dai suoi fidati compagni che arrivano da esperienze più o meno importanti nella scena death scandinava (Grave, 2 Ton Predator, Evergrey ed Entombed tanto per citarne alcuni). Ma veniamo ad “Armageddon March Eternal” vero crocevia di stili: il platter mischia infatti sonorità tipiche del death scandinavo (Entombed, Dismember e Grave) a momenti cyber death alla Fear Factory, giocando sull’eterno dualismo tra bene e male, qui contrapposti attraverso la musica, ma anche attraverso la voce eterea dell’angelica Jo e il profondo growling del luciferino Jörgen. Prodotto egregiamente da Dan Swano presso i suoi Square One Studios, il quarto sigillo della band nordica ospita tra i suoi solchi numerosi ospiti, da Gustaf Jorde dei Defleshed ad Anders Schults degli Unleashed. Il sound proposto dai nostri geniali ragazzi però non si ferma a quanto scritto sopra, va ben oltre: nei sessantasei minuti di musica, se ne sentono davvero di tutti i colori, anche grazie alle strutture altamente complicate dei lunghi brani. Se appunto, la matrice di fondo del disco resta un granitico death metal, su questo si vanno a insinuare, tra le trame chitarristiche, anche dei momenti di inaspettata atmosfera, così come pure campionamenti elettronici presi in prestito dall’industrial e dall’EBM. Curioso l’effetto che ne deriva, una miscela esplosiva di emozioni, una colata di lava metallica che investe l’ascoltatore: nelle note di “Armageddon March Eternal” possiamo udire echi derivanti dalla musica più progressiva e d’avanguardia (Opeth, The Provenance e Arcturus sono i primi nomi che mi vengono in mente), ma anche schegge di black sinfonico tanto caro ai Dimmu Borgir. Svariate le influenze che si celano dietro a quanto partorito dalle menti di questi ragazzi: probabilmente il difetto maggiore dell’album sta in alcune ritmiche brutal un po’ troppo scontate, per il resto considero questo nuovo cd, un eccellente lasciapassare per la via verso il successo, anzi per l’Armageddon... imprevedibili e disorientanti, che volete di più? (Francesco Scarci)

(Threeman Recordings)
Voto: 80

Hopeless - Elements

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal/Funeral Doom, Shining
“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente… Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Queste frasi, dal senso così tremendo e oscuro, sono scolpite sopra la porta dell’Inferno, che Dante si appresta a varcare ne “La Divina Commedia”. E facendo proprio un confronto con l’opera del poeta toscano, mettendoci all’ascolto di “Elements” degli spagnoli Hopeless (appunto “senza speranza”) e del loro catastrofico suicidal black metal, le sensazioni che emergono sono le medesime di quelle descritte nel più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. L’aver scomodato Dante per la recensione di questo cd, non deve trarvi però in inganno, perché ahimè non ci troviamo al cospetto di una cosi maestosa opera d’arte, anche se la musica proposta dalla one man band di Malaga è molto buona, ma credo che ai più potrà risultare di difficile fruizione. Eh si, perché il sound mortifero proposto da Lvcciferian e dai suoi Hopeless, è un black ambient dalle pesantissime tinte depressive/suicide che emergono fin dall’iniziale “March 13th” e perdurano fino alla conclusiva title track (tralasciando l’ultima inutile cover, da “Il Padrino” “The Ghostfather“). A dispetto di una produzione non proprio all’altezza, la musica dell’act iberico sconvolge i nostri sensi con composizioni dal forte impatto emotivo, con ambientazioni nere come la pece, squarciate da dannate litanie angoscianti. La ritmica non è mai veloce, semmai assai ripetitiva; tuttavia la noia non finisce mai per intaccare il nostro ascolto, nonostante le lunghe durate (sugli 8-9 minuti) di alcune tracce. Non mi stancherò di ripetere che quello che abbiamo fra le mani è un cd di funeral black doom apocalittico, di faticherà a trovare molti consensi; tuttavia mi sento di poter consigliare l’ascolto di questo lavoro anche a chi non è cosi abituato a questo genere di sonorità, perché potrebbe risultarne piacevolmente sorpreso. Sia chiaro che “Elements” non è un disco da poter gustare in auto o in compagnia di amici, ma da assaporare chiusi nell’oscurità della propria camera, magari con un paio di candele accese. Sofferente, malato, sconfortante: devo ammetterlo, a me la musica degli Hopeless piace molto e vi invito a dargli un ascolto; avvicinatevi con cautela però! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75

venerdì 3 giugno 2011

Astral Silence - Astral Journey

#PER CHIA AMA: Funeral Doom, Cosmic Black Metal
Ancora una volta Svizzera (come per i Mal Etre), ancora una volta viaggi spaziali come era successo per i compagni di scuderia Spuolus, ancora una volta una one man band, questa volta guidata da Quaoar. La proposta che oggi fa visita al mio stereo è il full lenght di debutto degli Astral Silence, che arriva a convincermi che il paese alpino non sia importante per il cioccolato o per alcune grandi band (Celtic Frost, Samael, Coroner), ma che ci sia realmente un fermento continuo nell’underground che cresce e spinge per farsi conoscere. Certo, c’è anche da dire che non tutte le ciambelle escono col buco, ma questo è un altro discorso che magari affronteremo nel corso della recensione. Partiamo col dire che “Astral Journey” è uno di quegli album di difficile approccio, ma devo ammettere che sono quelli che poi talvolta regalano anche le maggiori soddisfazioni. Si apre con la classica intro ambient (peccato che duri “solo” poco più di dieci minuti). Già messo a Ko dalla ipnotica, quanto mai inutile apertura, finalmente riecheggia nelle casse del mio stereo, la musica del factotum Quaoar e del suo cosmic black metal (definizione che sta prendendo sempre più piede ultimamente) che quasi istantaneamente, guida la mia mente verso il sound dei conterranei Darkspace. Vuoi per la definizione del genere, vuoi per i punti di contatto che accomunano le due band, ossia quella ripetitività di fondo che lacera le nostre menti, effettivamente le due band finiscono inevitabilmente per assomigliarsi. Non voglio bollare gli Astral Silence come dei meri cloni dei ben più famosi colleghi, però questo finisce per inficiare un po’ il mio voto. Ci prova “Hydra” a risollevare le sorti di un album che rischia di finire nel dimenticatoio dei cd perduti. Per carità nulla di innovativo o personale, però il suicidal black degli Astral Silence si lascia ascoltare piacevolmente, tuttavia senza impressionare o senza spingersi verso lidi sperimentali, in quanto il riffing non si sforza di cercare soluzioni alternative e finisce per continuare a riproporre lo stesso giro di chitarre per l’intero pezzo. Quello che finisce poi per il placare il mio desiderio sacrificale, sono quelle ambientazioni ricche di tensione, che comportano un totale senso di rassegnazione e abbandono a chi le ascolta: tutto ciò emerge alla grande nelle conclusive “Dysnomie” (il mio brano preferito) e “Oort”, dove si respira tra l’altro un fetido odore di morte. Il funeral doom, con il suo impietoso riffing, le vocals quasi sussurrate, le cupe tastiere, finisce per prendere il sopravvento, scaraventandoci in un intenso stato di terrore. Il respiro si fa più affannoso e la visione più distorta, man mano che l’incedere della song si fa più che mai minaccioso; l’impressione che mi rimane alla fine di questa bieca danza della morte è che la sua mano abbia afferrato la mia gola per condurmi insieme a lei negli inferi. Mi risveglio, sono sudato, realizzo che è stato solo un incubo, lo stereo ormai si è spento in automatico e il cd degli Astral Silence è terminato, ma quel senso di angoscia perdura ancora nel mio animo e chissà ancora per quanto durerà. Destabilizzanti! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

Mal Etre - Torment

#PER CHI AMA: Ritual Black Metal, Funeral Doom
Come riporta il booklet del cd, questa è una raccolta di tracce di un viaggio personale, che riflette momenti di isolamento e crisi personale dell’individuo, Nocturnalpriest, che si cela dietro il nome di Mal Etre. La one man band svizzera finalmente, dopo 4 demo rilasciati a partire dal 2007, fa uscire per l’attivissima Kunsthauch, questo cd di sette pezzi che fa del suo titolo, il proprio inno… il tormento, si. Ora capisco per quale motivo viene spiegato il perché della nascita dei brani, poiché fin dall’iniziale “Vie Impure”, non posso esimermi dal constatare che proprio questo sentimento, cosi straziante e lacerante, costituisce la base delle sonorità di questo oscuro lavoro, anche se spesso ci si abbandoni in selvaggi tripudi alla malvagità. Dopo l’adattamento al corrosivo sound della lunga opening track, mi lascio cullare dalle soavi note di “Forest”, prima di immergermi nell’angosciante trip creato dalla tenebrosa “My Funeral”, macigno ipnotico di funeral doom miscelato ad ambientazioni che mi hanno riportato alla mente gli ahimè disciolti Decoryah, forse prima fonte di ispirazione dell’act alpino, insieme allo shoegaze moderno dei maestri Alcest. Nulla di cosi immediato, il sound dei Mal Etre è un qualcosa in grado di spingerci fino all’orlo del precipizio e probabilmente anche qualcosa in più. Gocce di pioggia a metà brano sottolineano quel senso di malinconia (per non dire cupa disperazione) che attanaglia l’intero cd; la pioggia lascia poi il posto a linee di chitarra contraddistinte da un uso estremamente basso dell’accordatura, in compagnia di urla disumane in sottofondo e apocalittiche visioni da fine del mondo. Il senso di sofferenza prende il sopravvento anche con la successiva “Unblessed Beings”, dove l’artefice di questi suoni finisce per compiangersi sin dai primi tocchi arpeggiati di chitarra. Poi quando sopraggiungono i cori, l’influenza del combo finlandese sopraccitato si fa più forte, e la musica del nostro eroe finisce per mescolarsi con un riffing epico di chiara matrice Burzum, per un finale da brividi. Evocativo, malato, contemplativo, questi sono solo alcuni degli elementi che emergono dall’ascolto di questo “Torment” che è in grado di regalarci ancora altri momenti di mistero con “Sad Day” e di solenne black metal con “Son Ame Saigne”. Peccato solo che la produzione non sia delle migliori, sono convinto che con altri suoni si sarebbe potuto apprezzare maggiormente i dettagli di questo seminale opera. Tormentati! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 75