Interviews

martedì 28 settembre 2010

Wrath Prophecy - Becoming the Absolute


Ahhhh!!! Ho perso la bussola già dopo l’ascolto dei primi 2 minuti di questo schizofrenico lavoro e già mi ritorna alla mente lo stesso effetto disturbante che ebbe nel mio cervello l’ultima release dei marchigiani Infernal Poetry; e qui non siamo dopo tutto cosi distanti da quella folle proposta. La giovane band di Feltre fa dell’imprevedibilità infatti il proprio credo: appresa alla grande la lezione impartita dalle grandi techno death bands di sempre (Atheist, Death e Cynic) e miscelata alla perfezione con la follia di Between the Buried and Me e Dillinger Escape Plan, con un pizzico della ferocia dei Cephalic Carnage, il quartetto della provincia di Belluno sciorina qualcosa che forse in Italia non era mai stato concepito e sperimentato prima d’ora. Eh si perché questo “Becoming the Absolute” può essere personalmente considerato come la risposta italica alle grandi band d’oltreoceano che fanno di furia (ascoltare le prime tre tracce), la follia (ascoltare “Brainless” per credere, dove fa la comparsa la voce schizoide di Paolo Fontolan ad interrompere il growling brutale di Matteo), il tecnicismo (udibile ovunque), la melodia (rara), la disarmonia e la bizzarria, il proprio punto di forza. I Wrath Prophecy osano osano e poi osano ancora con soluzioni musicali estreme che saranno in grado di annichilirvi fin dalle prime ardite note. Fortunatamente la title track ci dà il tempo di riassettarci e rimetterci in piedi come se un pugno sferrato da Mike Tyson ci avesse fratturato le ossa di mandibola e mascella e ci avesse messo a tappeto, ma non illudetevi perché la macchina da guerra imbastita da questi quattro ragazzi è pronta a ripartire e tornare a far male. La violenta “Into the Eyes”, ma soprattutto la mia preferita “Autabuse” tornano a colpire con tutta l’arroganza, la genialità e l’eccentricità che contraddistingue la proposta musicale di questo ensemble veneto. Sorprendente ancora l’inserto jazzy della strumentale “Napalm Jazz” o l’assolo di clarinetto in “Lucy’s Ballad” a cura di Gabriele Soppelsa, l’incedere spagnoleggiante di “87 Octane”. Insomma “Becoming the Absolute” è un arrembante carico di emozioni, che se fossero state adeguatamente supportate da una produzione all’altezza, da una migliore performance a livello vocale (forse unico neo della band) e da una promozione degna delle migliori band americane, forse saremo qui a parlare del nuovo fenomeno mondiale Wrath Prophecy. Per ora accontentiamoci di segnalare che una nuova band, mostruosa sotto ogni punto di vista (tecnico-compositivo), è nata in Italia e spero che sia in grado presto di farsi strada. Meritano senza dubbio la vostra attenzione, mi raccomando non perdeteli di vista, sarebbe un terribile peccato… (Francesco Scarci) 

(Hot Steel Records)
voto: 75

domenica 26 settembre 2010

October Tide - A Thin Shell

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Quando ormai pensavo le speranze fossero finite, ecco vedermi recapitato a casa un pacchetto anonimo con dentro il nuovo, terzo capitolo degli svedesi October Tide. Erano ben 11 anni che attendevo con trepidazione l’uscita di quello che era il side project di J.Renske e F.Norman dei Katatonia, autore di 2 ottimi album di death doom. Oggi la band, orfana di J.Renske, ha assoldato tra le sue fila Tobias Netzell voce degli In Mourning e Robin Bergh (Amaran) dietro le pelli e sfodera un’altra, l’ennesima prova di quanto si può essere ancora maledettamente decadenti nel 2010. La dipartita del vocalist dei Katatonia non ha per nulla intaccato l’integrità del sound degli October Tide, forti sempre dell’apporto in chiave ritmica dell’ormai ex chitarrista dei gods svedesi, che da sempre ama creare un contrasto tra chitarre pesanti, distorte ma sempre estremamente melodiche (vero marchio di fabbrica degli October Tide) coniugate ad ambientazioni malinconiche e meditative grazie all’utilizzo di parti acustiche veramente interessanti che si insinuano nella nostra mente portandoci alla disperazione (basti ascoltare le prime due songs, “The Custodian of Science” e “Deplorable Request” per capire). Se avete amato i Katatonia di “Brave Murder Day”, non potrete fare a meno anche degli October Tide e del loro nuovo lavoro, che continua il filone iniziato con quel capolavoro di ormai 14 anni fa, mai dimenticato. Le songs, sette, rinverdiscono i fasti di un tempo, regalandoci più di 40 minuti di musica emozionale, criptica, disperata e talvolta anche originale (“A Nighttime Project” è una vera sorpresa per quel suo essere cosi tribale): questi, gli ingredienti che sapranno restituirci una creatura che per molto tempo ho creduto fosse persa. “A Thin Shell” non è un album geniale, ma è la naturale evoluzione di “Grey Dawn” che farà la gioia per tutti gli amanti di sonorità death-doom. Ben tornati October Tide, vi stavo aspettando! (Francesco Scarci)

(Candlelight Records)
Voto: 75

sabato 25 settembre 2010

Expedicion a las Estrellas - 27


Una delle cose più interessanti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi viene dal Messico e quale piacere ammetto di aver provato udendo le sonorità contenute in questo piccolo gioiello, che mi hanno consentito di ampliare enormemente il mio spettro di ascolti. Pur non essendo infatti un grande amante di sonorità post-metal, con questo “27”, mi sono dovuto ricredere enormemente sulle potenzialità di un genere che ha invece un sacco da dire e gli EALE sono dei maestri in questo: un gruppo follemente geniale che ha concepito un album capace di coniugare il post-rock con plumbee atmosfere doom e grugniti (rigorosamente in spagnolo) in pieno stile black, senza disdegnare invasioni in territori (post)hardcore. Insomma, avrete capito da queste mie parole che qui dentro c’è n’è davvero per tutti i gusti e forse la difficoltà starà proprio nel saper coniugare tutti questi generi in un sol boccone, ma i nostri sono stupefacenti in questo, ve lo garantisco. Insomma non riesco a trattenere l’entusiasmo dopo aver ascoltato un cosi ben fatto album, era da tempo che non mi capitava. So che per voi è difficile decifrare tutte queste mie parole, ma dovete fidarvi di me ancora una volta, cercare l’album navigando in internet sul sito myspace della band e farlo vostro, rimarrete a bocca aperta anche voi, ascoltando solo i primi 4 pezzi (e ce ne sono 15 per più di 70 minuti di musica). Atmosfere rarefatte, ultra mega dilatate, si fondono con un gusto per la melodia assai originale, con un’alternanza di ritmiche frenetiche che ci portano repentinamente dall’headbanging più esasperato al frangente successivo, dove latineggianti chitarre acustiche dipingono tenui paesaggi autunnali, con la voce di Didier Garcia che dal primo all’ultimo minuto vomita nel microfono (da rivedere alla lunga l’utilizzo delle vocals). Tocchi di pianoforte ci deliziano nella furiosa “Nonostante la mia apparenza felice mi sento come se stessi morendo”, song che parte con un intro al limite del black old school e poi si alterna tra funambolici cambi di tempo in un susseguirsi vorticoso di suggestioni ipnotiche. Un malinconico violino apre “Suicidio Lunare”, song che se non fosse sempre per la sempre vetriolica voce, potremo trovare in un disco dei Mogway o degli Explosions in the Sky per quei suoi fraseggi raffinati, il pianoforte costantemente presente e le sue grigie deprimenti ambientazioni. Il quintetto di Zacatecas è veramente in gamba: più ci inoltriamo nei meandri di “27” e più riusciamo a cogliere questo alternarsi di post rock, hardcore, avantgarde e screamo che ben si amalgamano incredibilmente tra loro in un turbinio emozionale unico, senza precedenti che chiarisce la chiara e solida personalità della band centroamericana. “Phoenix” e “Androgyne…” sono altre due magnifiche songs, ove convergono tutte le mirabili influenze del combo messicano. Interessante anche il concept che si cela dietro a “27” che narra la storia di un viaggio verso le stelle e la riflessione sulla dualità tra il bene rappresentato dalla luce e il male delle tenebre. Insomma filosofia (citazioni di Nietzsche), cultura e religione (i Maya e la tanto declamata fine del mondo nel 2012), contribuiscono ad arricchire ulteriormente i contenuti di questo disco che vorrei citare anche per il suo digipack particolare. Escursioni jazz core, math e folk completano uno degli album più entusiasmanti io abbia ascoltato negli ultimi tempi. “27” (2+7=9 , il numero di Dio) sebbene mostri ancora qualche lacuna a livello di produzione o contenga qualche parte (specialmente sul finire del cd) ancora un po’ grezza, si conferma disco eccezionale e di grande intelligenza. Strepitosi! (Francesco Scarci)

(Self)
voto: 85

S:T Erik - From Under the Tarn


Quale goduria nel mettere questo cd nel mio lettore: era da tanto tempo che non ascoltavo questo genere di sonorità doom/stoner/psichedeliche tutte ben miscelate tra loro e in grado di produrmi dei magnifici trip mentali, come se avessi fatto un abbondante uso di LSD. Il quintetto svedese, capitanato dalle disperate vocals di Erik Nordstrom riesce in tutto questo e lo si capisce già dalla iniziale “Goddess” dove in sette minuti, i nostri palesano tutto il loro talento. Chitarroni dal chiaro stampo stoner, si alternano a momenti di delicata e lisergica psichedelia, con la sofferente voce di Erik a parlare di solitudine e disperazione. L’inizio della seconda lunghissima traccia (più di undici minuti) sembra presa in prestito dagli ultimi ISIS: 3 minuti e passa di atmosfere soffuse, dense e avvolgenti, dopo di che sale in cattedra ancora una volta il talentuoso vocalist e ci conduce tra i fumi solforosi dell’inferno, facendoci capire con le sue parole che stiamo buttando via le nostre vite. Le ambientazioni angoscianti che si percepiscono sono davvero da brividi: i sintetizzatori giocano un ruolo di prim’ordine nell’economia globale di questa release, creando atmosfere apocalittiche a tratti e spaziali in altri frangenti. Assai affascinante il risultato, soprattutto se siete nella classica cameretta a luci spente, il tutto vi sembrerà più seducente. Nella terza, altrettanto lunga, song, si mette da parte il doom angosciante e si torna a parlare di space stone rock, con i granitici riffs del duo Tomas Eriksson e Magnus Wikmark a proporre il loro ultra conservativo drone fino a quando a metà della song sopraggiunge il silenzio, forse la fine del mondo: c’è freddo, l’atmosfera si fa sempre più rarefatta, la paura ci assale per poi esplodere nella parte conclusiva della traccia… spettacolare! È come trovarsi in un brutto sogno quando quanto di più oscuro e inquietante sta per assalirci, ma il dramma, la paura che sorge è che non sai esattamente cosa sia quella entità misteriosa che sta per farti a pezzi. La musica dei S:T Erik ha lo stesso medesimo effetto: è oscura, inesplicabile, terrorizzante ma il risultato è estremamente affascinante. Un ipnotico basso apre “Black Wall” e via pronti a ripartire per un altro viaggio spaziale a bordo dell’astronave svedese. La conclusiva “Swan Song” nei suoi tredici minuti ci tramortisce definitivamente con i suo riff pachidermici, le atmosfere ultra mega dilatate, asfissianti, che ammorbano irreparabilmente le nostre menti… Non ho fatto alcun uso di droghe ve lo giuro, ma risollevarmi dal mio sofà dopo l’ascolto di questo cd, è davvero impresa assai ardua. Ottima musica (non per tutti però), ottimi musicisti e un’ottima produzione (sporca il giusto), confermano l’oculatezza da parte dell’etichetta russa Solitude Production, nello scegliere le band da mettere nel proprio rooster. Complimenti avanti cosi! (Francesco Scarci) 

(Solitude Prod.)
voto: 80

Time's Forgotten - Dandelion


Bravi! È la prima impressione che rimane subito dopo aver ascoltato il CD autoprodotto da questa giovane band del Costa Rica. “Dandelion” esce a due anni di distanza da “A Relative Moment of Peace”, album d'esordio che ha dato la possibilità a questi sei ragazzi di partecipare a diversi festival Progressive-Rock nel continente sud-americano e di farsi un nome grazie al loro indiscutibile talento. Quello che stupisce sin dal primo ascolto del cd è la capacità innata di combinare assieme tutti gli elementi in un mix sorprendentemente piacevole e omogeneo, in cui nessuna componente risulta sacrificata rispetto alle altre. Partendo dalle tastiere infatti, con un Calvo che oltre a essere il principale compositore dei brani si dimostra anche un ottimo musicista, abile negli assoli tanto quanto nella parte elettronico-digitale, la musica dei nostri scivola via che è un piacere. Le chitarre svolgono un lavoro egregio, gli assoli sono ottimi, non solo dal punto di vista della velocità d'esecuzione ma anche per l'energia che sanno trasmettere così come il basso che fa sentire la sua presenza in ogni traccia. Le voci sono decisamente pulite anche se in alcuni passaggi non sono perfette al 100% (forse troppo “acerbe” in alcuni frangenti). Nota al merito inoltre per la batteria: Jorge Sobrado è decisamente un batterista talentuoso, certo non siamo ai livelli di Portnoy ma comunque ha un'ottima impronta, bravo negli inframmezzi jazz, abile nei passaggi più complessi e dinamici così come nell'utilizzo del doppio pedale. Interessante infine l'intrusione etnica con le parti di flauto di Eduardo Oviedo che si integra molto bene con l'identità dell'album. In definitiva “Dandelion” è un lavoro elaborato e ricco di ottime melodie ricercate; raccomandato non solo agli amanti del genere. Da ricercare assolutamente! (Alberto De Marchi) 

(Self)
Voto: 75

Kailash - Past Changing Fast


Secondo cd per i nostrani Kailash, duo proveniente da Viterbo, che propone un sound estremamente personale e sperimentale. Partendo da basi math, l’act laziale esplora un po’ tutti gli ambiti della musica metal e non solo. Devo dire che mi ha fatto un po’ impressione leggere in giro per il web che i nostri siano una formazione black metal (relegato ad un paio di rare incursioni selvagge), perché a mio parere questa informazione è estremamente fuorviante di quelle che sono invece le reali note che si trovano nelle corde del duo Marco/Andrea. La prima “Water Glimpse” è una song strumentale (come tutto il resto del disco d’altro canto) decisamente ispirata al post rock, in cui si susseguono passaggi che vanno a dipingere ambientazioni oscure ed altre più brutali. La successiva title track è un gioiello in cui si incastonano gemme di jazz, avantgarde, math-core e progressive, che la incoronano decisamente al primo posto tra le mie preferenze. Sia ben chiaro “Past Changing Fast” non è uno di quei lavori estremamente semplici da essere affrontati: il fatto di essere cosi eclettico pone come condizione basilare la necessità di avere una mentalità estremamente aperta a questo genere di sonorità, non sempre facili da digerire. Andando avanti con l’ascolto dei brani, ci si rende sempre più conto della elevata capacità tecnica dei fratelli Basili che già avevano messo in luce le proprie potenzialità in passato sotto il monicker di Krom. I nostri sono dei maestri nell’alternare momenti di delicata poesia, ad altre esplosive evocazioni sonore, esaminando in modo approfondito il proprio intimo e le percezioni più distorte della psiche umana. Forse sto vaneggiando si, ma è solo l’effetto ipnotico che l’incedere di questo disco provoca alle mie cellule neuronali. Sono destabilizzato da quest’alternanza di suoni disarmonici, completamente disorientanti, che sembrano volti a portarci in un universo parallelo in cui tutto va all’incontrario. Bello, ma tutto decisamente strano, mi trovo quasi al termine dell’ascolto del cd e ho perso la cognizione del tempo e dello spazio. È un andirivieni di emozioni che travolgono l’ascoltatore, che spesso si ritrova spiazzato dalle soluzioni adottate dai nostri, decisamente dei maestri nel saper miscelare influenze provenienti da più ambiti musicali. L’unica scelta che magari non condivido troppo è il fatto di non avere un cantante in pianta stabile nella band, una di quelle voci sofferenti che potrebbero donare al tutto ancora maggiormente un feeling di disperazione, inducendo quindi l’acquisto di questo disco solo ad un ristretto numero di persone. L’ultima segnalazione riguarda il rifacimento di “Remembrance of the Things Past”, song dei norvegesi Ved Buens Ende, logicamente riletta in chiave Kailash style. Se volete abbandonare il vostro mondo e immergervi in un altro per una quarantina di minuti, il suggerimento che vi do è di tuffarvi nelle note di questo futuristico “Past Changing Fast” e lasciarvi andare ad un alternanza di pensieri confusi e distorti, attenti però a non sfociare nella pazzia! Raffinati e intensi, ma decisamente poco abbordabili e relegati per ora, solo all’ascolto di una di nicchia di persone. (Francesco Scarci) 

(Frostscald Records)
Voto: 75

Illidiance - Synthetic Breed

#PER CHI AMA: Cyber Death, The Kovenant, Fear Factory
Da più parti indicati come la migliore cyber metal band russa, gli Illidiance con questo Mcd di cinque pezzi (più un live video), confermano effettivamente le proprie eccellenti doti musicali. Formatisi appena nel 2005, e già con due full lenght alle spalle e diversi concerti di supporto ad act quali Rotting Christ, Deathstars e Grave Diggers, con “Synthetic Breed” i nostri vogliono regalarci un gustoso antipasto in attesa dell’uscita (speriamo prossima) del loro terzo cd. Musicalmente parlando possiamo collocare il quartetto di Rostov sul Don a cavallo tra le l’electro death dei The Kovenant e il cyber thrash dei Fear Factory. Si parte alla grande con “Cybergore Generation”, song di notevole spessore, in cui il combo russo mette in luce il proprio bagaglio tecnico-compositivo: un potente attacco frontale, arrembanti synth, gustose melodie, l’alternanza di clean vocals con il growling di Dimm “Xyrohn”, la indicano come la migliore traccia dell’Ep, mostrandoci fin dall’inizio di che pasta sono fatti questi russi. Si prosegue con “Infected”, song più ritmata, che mi ha ricordato le ultime cose dei nostrani Ensoph, per quelle sue atmosfere esoterico-futuristiche. La terza “Mind Hunters” conferma le buone cose sentite fino ad ora: ritmiche schizzate su basi melodiche industrial cibernetiche che ci travolgono con quei suoi catchy riffs e per le sue vibrazioni elettroniche capaci di infettare l’ascoltatore. “Razor to the Skin” esordisce molto in stile Kovenant, ma poi prosegue con la sua furia high-tech. Un plauso particolare va fatto ai due vocalist, bravissimi come impostazione vocale, altrettanto bravi nel saper alternare il cantato growl e clean. Chiude la bonus track, “Cybernesis”, trionfante marcia di chiusura per un lavoro che conferma effettivamente le qualità di una band che non conoscevo, ma che è stata in grado di conquistarmi fin dal primo ascolto. Da tenere sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hellcome to Dollywood Records)
Voto: 75
 

Defamer - Chasm

#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Album d’esordio totalmente home-made per questi cinque ragazzi australiani provenienti dal Queensland che forse però sono troppo audaci nel voler fare tutto da soli, peccando d’inesperienza. Fin dall’inizio infatti, l’intro “In Umbris” di oltre 2 minuti (un po’ troppi) dei Boyd Potts non si dimostra una felice collaborazione, il pezzo infatti resta slegato al resto della scaletta e risulta essere piuttosto noioso. Seguono poi le canzoni della band, che subito lasciano spiazzati per la somiglianza dei due brani in sequenza “In Winter it Began” e “The Inverse Dominion”. L’album si risolleva a buoni livelli con i pezzi “Black Oscene” e “Of the Chasm” ma si perde poi nuovamente, in un mix di canzoni che tentano di imitare i maestri Cannibal Corpse, senza però mostrare niente di veramente originale: la voce prepotentemente growl risulta infatti monotona e troppo pastosa, mentre i passaggi strumentali, pur dimostrando una certa talentuosità non sono mai innovativi o particolarmente interessanti: la batteria corre veloce, ma non ci sono veri momenti degni di nota, mentre chitarre e basso tentano sia la strada del virtuosismo velocistico sia quella dei riff più lenti, senza però riuscire mai a sorprendere. In definitiva resta un album d’esordio mediocre che non emerge dalla massa; si attende con impazienza una nuova produzione per vedere in che direzione si potrà muovere l’ago della bilancia, sperando che questo primo album dia alla band la possibilità di avere in futuro l’aiuto di una consulenza discografica d’esperienza che potrà certamente giovare sul risultato finale. Trattandosi di un’autoproduzione la nota conclusiva riguarda la qualità del CD: la produzione risulta essere buona per quanto riguarda registrazione e incisione delle tracce, mentre una nota negativa va al booklet ed alla copertina del CD, che risultano essere di scarsa qualità. Da rivedere (Alberto De Marchi)

(Self)
Voto: 50
 

The Ocean Doesn't Want Me - Which I Hope to Live for

#PER CHI AMA: Post metal, Sludge, Isis, Cult of Luna
Di questa band mi aveva già incuriosito il nome, potete ben immaginare quanto poi sia diventato più suggestivo procedere alla sua recensione scoprendone la provenienza: Sud Africa. Che spettacolo; chissà se là dove le onde dell’Oceano Atlantico si infrangono contro quelle del Pacifico si respiri un’aria diversa, più ispiratrice? Da quanto si carpisce dalle prime note, direi proprio di si. Ragazzi, di nuovo fuori carta e penna perché qui di carne al fuoco c’è n’è molta e non voglio che ancora una volta vi lasciate scappare un cosi ben fatto cd. Partiamo da quello che è il sound di base della compagine sud africana: un ispiratissimo post rock super dilatato sulla scia dei migliori Isis, ma non solo. Il terzetto di Pretoria è riuscito a creare un coinvolgente e avvolgente lavoro che mi fa ben sperare per il futuro prossimo, quando nel 2010 uscirà il secondo capitolo del combo Afrikaans. Se siete degli amanti delle atmosfere psichedeliche alla Isis qui c’è pane per i vostri denti: atmosfere soffuse, squarciate da vetriolici riff di chitarra e corrosive vocals. Si parte con un oscuro post rock che lascia presagire che ben presto qualcosa di interessante accadrà ed è cosi in effetti, perché dopo un avvio abbastanza rilassato, con la comparsa anche di una eterea voce femminile nella terza traccia, il lavoro diventa più aspro e duro con chiari riferimenti di matrice “swedish” (Cult of Luna su tutti, ma anche qualche giro di chitarra di Meshuggahiana memoria). Intrigante, pachidermico, misterioso, disperato, “Which I Hope to Live For” ci consegna una band davvero capace, in grado di stupirci con trovate interessanti (alcune parti tribali di batteria) e da assaporare assolutamente tutto di un fiato in cuffia in una stanza completamente buia. Emozionanti, deprimenti, desolanti, questi sono solo alcuni degli aggettivi che si possono affibbiare alla band dell’emisfero sud, neanche vivessero nella tundra scandinava. In alcuni passaggi si rivelano ancora un po’ acerbi come nella sesta “Nation of Spears”, dove il retaggio hardcore si fa sentire più che in altre parti, ma poi nella seconda parte della traccia ecco la band ritornare ad ammorbarci con le sue visioni da fine del mondo. Doom, psichedelia, post rock, rimandi ai Pink Floyd (ascoltate “You’re Yellow not Golden”), sludge, trip-hop, post-hardcore, tutto questo si ritrova all’interno del sound di questi meravigliosi The Ocean Doesn’t Want Me, vera e propria scoperta di questo autunno infuocato. Geniali… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Id:Vision - Plazmadkacs

#PER CHI AMA: Black Symph, Industrial, The Kovenant, Dodheimsgard
Eh già, continuo a ribadirlo: dall’est Europa in quest’ultimo periodo stanno arrivando sempre più prodotti di ottima qualità musicale ed estremamente curati nei dettagli. Dalla Bielorussia ecco arrivare gli Id:Division ossia la risposta est europea a Kovenant o Dodheimsgard. Già a partire da un entusiasmante digibook rigido con un booklet ricco di testi e ottima grafica, il sestetto di Minsk ci spara in faccia il loro peculiare death/black infarcito di sonorità techno-industrial. Ragazzi, che botta! La macchina da guerra Id:Vision è una sorta di panzer impazzito che ci travolge con i suoi suoni cibernetici, tanto da sembrare di ritrovarsi all’interno di un videogame con effetti stordenti che penetrano le nostre menti facendoci impazzire. La musica dei nostri è estremamente frenetica, non ci lascia via di scampo per un solo attimo, spingendoci solamente ad un headbanging furioso. “Doden Force Division” e “Disphenoid’s Equilibrium” sono due cavalcate, dove il metal estremo dei nostri, si fonde con dei suoni elettronici capaci di lacerare i nostri timpani. Poi parte “Nietzsche Trilogy”, un trittico di brani dall’incedere costantemente al limite della follia e con techno beat dal vago sapore danzereccio: sembra di essere quasi in discoteca in preda ad acidi nebulizzatori del nostro cervello e poi ancora dentro ad un flipper, tanti sono gli effetti ubriacanti che si susseguono nei minuti di questa trilogia. Siamo a metà cd e non capisco più nulla a causa di tutti questi suoni, che finiscono per allontanare la band da qualsiasi banalissimo paragone. Un momento di respiro con “Deathcamp Prelude” e poi con “Decagon Deathcamp” scattano nuovamente le visioni post-apocalittiche della band bielorussa, con gli stravaganti sintetizzatori che dipingono quadri desolanti di morte, la voce che per un attimo abbandona il suo cantato corrosivo per farsi più androide (e poi umana nella successiva “I.N.R.I.”) e le ritmiche sembre vibranti, cariche di quel groove che ha reso famosi compagini ben più note come Fear Factory o Strapping Young Lad, a battere il tempo. Grande sorpresa quindi per un gruppo che non conoscevo ma che con la sua musica, un mix perfetto tra il black sinfonico e il synth rock dei Ministry, sicuramente dovrà cogliere la vostra attenzione. Funambolici! (Francesco Scarci)

(Haarbn Prod.)
voto: 75
 

Funkowl - Bubo Bubo

#PER CHI AMA: Funk Rock
Sapete che vi dico? Ascoltare questo cd mi fa venire voglia di ballare e di farmi una birra (non necessariamente in quest’ordine), e non mi dispiace. Divertente. Bravi questi rodigini “Funkowl” (inteso “Gufo Funk”, non come amena località a cui inviare persone non piacevoli), molto in gamba tecnicamente, danno alla luce un lavoro di 5 tracce niente male. Registrato bene, tutto suona come dovrebbe. Non lasciatevi fuorviare dall’urlo iniziale, non cercate del metal, o dell’hard rock, al massimo ascolterete qualche passaggio appena tirato, perché qui abbiamo un album di straripante funk. Il punto di forza lo trovate in queste sonorità, eseguite molto bene, con cambi di ritmo piacevoli e con una voce che ben si adatta al genere. La parte ritmica svetta sul resto, come è giusto che sia in questo caso, i giri di basso e la batteria acchiappano per il loro incedere frenetico. Le chitarre mi hanno colpito meno, sono poco in luce, ma qualche assolo qua là riesce particolarmente bene, per esempio nella prima traccia “Phalocracorax Carbo” (nome scientifico del cormorano, per i non biologi e non ornitologi). Non male “Mario’s Odissey”, in cui si riutilizza il tema del videogioco “Super Mario Bros” in maniera funzionale ad una canzone funk. Le altre songs seguono lo stesso schema, ma non si soffre di quella sensazione di noia che capita spesso con uno schema compositivo ripetuto. Le tracks hanno il pregio di non essere troppo lunghe: se una non piace, almeno è breve; se piace, la si riascolta. Più personalità sarebbe ben gradita, alcune volte mi pare di sentire troppo l’influsso di altre band (“Red Hot Chili Peppers” nei giri di basso, “The Cure” in certe parte cantate), ma non troppo. Sono curioso di sentire un loro lavoro, sempre di questo genere, di più ampio respiro, magari un po’ più lungo, chissà cosa ne salterebbe fuori… (Alberto Merlotti)

Empyrean - Quietus

#PER CHI AMA: Black Symph/Death Progressive
Un preludio vampiresco ci introduce nell’oscuro e selvaggio mondo degli australiani Empyrean, validissima band di Brisbane capace di stupire gli ascoltatori per la freschezza della propria proposta musicale, pur viaggiando all’interno di territori già più volte esplorati da acts ben più famosi, quali Cradle of Filth o Emperor. Avrete già capito di che genere stiamo parlando quindi, un black sinfonico che paga sì tributo ai gods nord europei già citati, ma che ha anche modo di regalare qualche spunto interessante, affondando comunque le sue radici in un sound molto vicino al death progressive svedese (Opeth docet). Il sestetto australiano ci regala quindi dieci deliziose tracce, in cui ad emergere senza ombra di dubbio sin dal primo ascolto è l’eccelso lavoro dietro le tastiere di Daniel Tannett e l’uso di una voce che spazia in totale scioltezza dallo screaming più feroce alla Dani Filth, al growling più cavernoso, per fare inoltre qualche rara capatina in territori totalmente clean, tanto che il vocalist corre il rischio di sembrare quello di una delle tante band emo/metalcore che impazzano in questo momento. C’è ancora spazio per il miglioramento, ma già ascoltando la gotica “From Whence the Mourning Came” o la successiva esaltante “Halls of Sorrow”, mi rendo conto che quello che ho fra le mani è una band dalle grandissime potenzialità, dalle grandi doti tecniche e dall’indubbio gusto per le melodie. Non ci saranno chissà quali idee innovative nelle note di questo “Quietus”, ma è un cd che si lascia sicuramente ascoltare e sono convinto che possa avere una lunga vitalità all’interno del vostro stereo. Nella quinta “Shackled Within” fa la sua comparsa anche una soave voce femminile che riesce a stemperare quella furia annichilente che per l’intera durata del cd fa da contraltare a quell’alone di oscuro intimismo che circonda i brani. Altra segnalazione d’obbligo è per “Raped and Dying”, song molto vicina all’attuale produzione degli Enslaved. Insomma che dire? A livello di songwriting ci siamo, magari la produzione non è ancora ai massimi livelli, ma tranquillamente migliorabile; se solo ricercassero un proprio stile ben definito capace di allontanarli dai cliché del genere, e se solo le linee vocali di James Hill si caratterizzassero meglio, sono convinto che sentiremo parlare molto a lungo di questi Empyrean. Avanti cosi! (Francesco Scarci) 

(Prime Cuts Music)